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L’Italia, la Brexit e il futuro dell’Unione europea. La ricetta di Castaldo

Di Fabio Massimo Castaldo

Parafrasando Galilei, “eppur si è mossa”. Fino alle ultime battute di questo lungo percorso che è stata la Brexit, infatti in tanti nutrivamo dubbi sul fatto che questa scelta si sarebbe realmente concretizzata. L’idea di un possibile ribaltamento in termini di urne, di incapacità di trovare una sintesi o di formare un esecutivo forte che avesse un mandato in questo senso.

Sarà la storia a raccontarci degli errori dell’una de dell’altra parte: la Brexit ha avuto infatti, a mio modesto parere e a differenza di quanto molti dicono, molti “padri”. Penso, per esempio alla scelta presa da Cameron di procedere con il referendum del 2016 con il fine di abbattere la “resistenza interna” nel partito conservatore stesso, quella tensione tra brexiters e remainers che aveva connotato la campagna elettorale e che lo aveva visto trionfare su Farage.

Ma anche alle scelte operate dal punto di vista della strategia elettorale dagli stessi partiti del fronte cosiddetto “anti-Brexit”. Se ci fosse stato un accordo di resistenza organizzata ed incrociata nei vari seggi, con il sistema del “first past the post” – il sistema uninominale maggioritario a turno unico inglese -, probabilmente oggi avremmo quantomeno una buona possibilità di avere un parlamento impiccato piuttosto che una larga maggioranza conservatrice.

L’analisi del voto del referendum sul Brexit ci ricorda comunque che lo UK è un Paese che ha sempre coltivato una relazione “particolare” con l’Ue. Non è inopportuno ricordare la logica dei “rebates” della Thatcher e la volontà di dare quindi meno contributi al bilancio rispetto a quanto previsto ed applicato per gli altri stati membri, la volontà di non aderire all’Eurozona, di partecipare alle politiche dell’ex terzo pilastro in modo puntuale, ma solo caso per caso, per citare alcuni esempi.

La relazione specifica che lo UK ha sempre coltivato con l’Ue ha caricato il voto del 2016 di molti significati, significati in molti casi non necessariamente connotati con l’adesione o meno all’Unione: un grosso scontro tra centro e periferie, tra l’economia reale e quella finanziarizzata, e forse anche una percezione popolare profonda di rigetto nei confronti di una globalizzazione che non sempre è stata accolta, capita e gestita nel modo migliore.

Purtroppo però questa è stato, e la realtà ci pone ora di fronte diversi scenari possibili.

Uno è quello che evocava il direttore Arditti, ovvero la possibilità che ci sia la capacità di trovare un accordo che ci avvicini quanto possibile a quelle che sono le relazioni attuali, cercare quello che veniva definito qualche anno fa “modello Norvegia” anche se questo sappiamo bene non essere nell’intenzione dell’attuale governo britannico. Boris Johnson è stato infatti molto chiaro: è ben disposto a negoziare un accesso al mercato unico ma sul tema della mobilità dei lavoratori – che è uno dei quattro pilastri della nostra unione – mi sembra che la posizione sia quanto mai intransigente. E quindi questo scenario, lo scenario di una “quasi integrazione” o di una vicinanza molto forte è sottoposto ad un grande punto interrogativo.

Dipenderà molto dalla nostra capacità di porre come priorità la libera mobilità dei lavoratori, e soprattutto quanto saremo disposti a concedere in vista di non realizzare l’altro scenario, quello che io da grande appassionato di Orwell definisco lo “scenario 1984”.

Questo scenario alternativo vedrebbe una Gran Bretagna che si attesta in qualche modo a diventare quello che qualcuno ironicamente definirebbe il “51esimo Stato”, o comunque uno Stato politicamente ed economicamente molto vicino agli Stati Uniti, e che potrebbero ingaggiarsi in modo deciso e vigoroso in una concorrenza forte e forse sleale nei confronti del resto del continente pur di ritagliarsi un suo ruolo nell’ambito commerciale.

Dal punto di vista degli accordi commerciali, non assolutizzerei troppo la possibilità che lo UK andrà a concludere accordi particolarmente vantaggiosi. Molti Paesi, inclusi paesi del Commonwealth, non pensano più al Regno Unito come loro unica possibilità di avere una grande potenza alleata. Anzi, molti di questi Paesi, in particolare quelli dell’africa subsahariana, si rivolgono sempre più a nuove potenze globali come la Cina.

Inoltre in quest’anno di campagna presidenziale negli Usa, Donald Trump dovrà capire come conciliare l’America First con il progetto di trasformare eventualmente la Gran Bretagna in un grimaldello per scassinare il mercato unico e la compattezza dell’Unione europea – già messo a dura prova da altri meccanismi interni.

Detto questo la Brexit è oggettivamente per noi un danno – commerciale, economico e geopolitico. Molti oggi hanno ricordato il fatto che la Gran Bretagna è stata da molti pensata come un elemento di equilibrio per l’Italia in Ue. Dal mio punto di vista, non credo si sia mai potuto parlare di un fortissimo asse Italo-britannico in contrapposizione a quello Franco-tedesco come qualcuno vagheggiava qualche decennio fa, quando la Gran Bretagna si unì alla famiglia europea. Ciò nonostante è indubbio che in Ue lo UK rappresentasse un elemento di equilibrio – non necessariamente sulle nostre posizioni – per ampliare la discussione ed avere una sintesi un po’ più ampia.

Ebbene la Brexit ci ha posto davanti ad un doppio quesito: da un lato, quale Ue costruire per dare una risposta ed evitare l’”effetto domino” – e soprattutto evitare che la l’uscita dall’Ue possa essere utilizzata come strategia di ricatto da quagli stati dell’Europa dell’Est che non sono parte per esempio dell’unione economica e monetaria? Dall’altro lato, ci pone una riflessione come Paese. Che ruolo vogliamo che l’Italia abbia ora nel contesto europeo, cosi come nel più ampio e multilaterale contesto globale nell’ambito del G20, o della riforma dell’Omc.

Questa è una riflessione profonda che dobbiamo fare tenendo bene a mente che non è nel nostro interesse inasprire i negoziati ma al contrario cercare di facilitarli: tentare di avvicinare le posizioni ed evitare una contrapposizione dura verso il nostro quarto mercato di export e verso un Paese che di fatto controlla la nostra borsa.

Un ulteriore tema che va toccato è quello della difesa. Senza UK, infatti, in Ue non c’è difesa: in termini di capacità strategiche, di contributi ed investimenti, di know-how e di capacita operative. Una Gran Bretagna che cala una cortina in mezzo alla Manica renderebbe menomata sin dall’inizio la possibilità di sviluppare una forte difesa europea e di conseguenza renderebbe più difficile un sano coordinamento all’interno dello spazio euroatlantico che dovrebbe – almeno auspicabilmente – riequilibrare i rapporti di forza tra le parti.

È molto difficile dare una risposta su quale sarà lo scenario finale, ed è chiaro che tutti auspichiamo uno scenario zero dazi e zero dumping. Ma cosa può e cosa deve fare l’Italia concretamente, oltre a tentare di facilitare questo confronto ed evitare che si mettano in discussione alcuni pilastri come, per esempio, il sostegno all’Irlanda sulla questione del Good Friday Agreement?

L’Italia deve capire come innestarsi nell’Ue post-Brexit, distaccandosi innanzitutto dalla classica ossessione di voler spaccare l’asse franco-tedesco perché questa è una mera e pia illusione. È fondamentale che l’Italia si concentri piuttosto sul rinvigorire il rapporto con questi due stati e soprattutto con la Germania. Non dico questo perché credo che non ci possa essere una forte cooperazione con la Francia, ma poiché credo che paradossalmente, pur partendo da distanze più ampie, la si possa trovare più facilmente con la Germania. Un Paese che economicamente è più complementare con l’Italia e meno confliggente su tanti settori. Un Paese che vede già il centro e nord Italia innestato nel suo sistema industriale, per esempio nel suo indotto dell’automobile.

È necessario però mostrare un’Italia più attiva, un’Italia un po’ più convinta e della sua dimensione ed un’Italia che riesce a ritagliarsi uno spazio ed un ruolo propri, per esempio ponendosi come tramite dei paesi del Commonwealth presso l’Ue per colmare quel vuoto e quello spazio che si sta aprendo. Inoltre, è fondamentale anche più intraprendenza nel campo dello spazio e della difesa, soprattutto in termini di investimenti, per evitare che il gap dell’uscita vada a rendere l’ambizione della Pesco, dell’Edf, della Military Mobility frustrata.

Vedo quindi per l’Italia post-Brexit una maggiore presa di responsabilità nello spazio e nel vicinato, e di un riequilibrio dell’Ue verso il mediterraneo, cosi come vedo un ruolo molto importante anche sul tema – e questa sarà un delle battaglie di quest’anno – del cercare risorse proprie per colmare il vuoto della perdita di un contribuente netto come la Gran Bretagna.

Se avremo la capacita di affrontare queste sfide in modo chiaro, coeso e lineare forse potremmo dalla difficoltà far nascere anche un barlume di opportunità. Se, al contrario saremo invece timidi, indecisi e frammentati temo che per noi la Brexit si rivelerà un pessimo affare.

(Pubblichiamo l’intervento del vicepresidente del Parlamento europeo in quota Movimento 5 Stelle, Fabio Massimo Castaldo, in occasione dell’evento “L’Europa dopo Brexit: prospettive e contributo dell’Italia” organizzato da Formiche a Bruxelles)

(Qui l’intervento di Tiziana Beghin)
(Qui tutte le foto dell’evento)

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