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Di Maio in Libia. Cessate il fuoco, immigrazione ed equilibri regionali (da gestire con cura)

Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, è oggi in Libia per una nuova doppia tappa est-ovest, Tripoli-Bengasi. A Tripoli incontrerà la leadership del Governo di accordo nazionale (Gna), l’esecutivo nato nel 2015 sotto egida Onu e internazionalmente riconosciuto che sta subendo dall’aprile delle scorso anno un’aggressione da parte di Khalifa Haftar. L’entourage del capo miliziano dovrebbe essere invece la controparte che il ministro italiano vedrà in Cirenaica.

La doppia sponda riproporrebbe un tour già visto due mesi fa. Doppio anche l’obiettivo. Se sul piano diplomatico internazionale l’interesse dell’Italia è mantenere, e se possibile consolidare, il fragile cessate il fuoco raggiunto con la Conferenza di Berlino, Roma ha anche un interesse diretto.

Con Tripoli l’Italia ha firmato un accordo per la gestione del traffico migratorio che s’è rinnovato in forma automatica il 2 febbraio, ma che ha una serie di problemi. Da tempo è stata denunciata pubblicamente la brutalità con cui vengono trattati i migranti da parte di aguzzini appartenenti a milizie un tempo dedite al traffico di persone, passati sul lato opposto del controllo delle migrazioni quando il business s’è fatto più conveniente.

Ieri la Farnesina ha fatto girare una nota con la quale si comunicava che a Tripoli era stato inviato un documento contenente “significative innovazioni per garantire più estese tutele ai migranti, ai richiedenti asilo ed in particolare alle persone vulnerabili vittime dei traffici irregolari che attraversano la Libia e per promuovere una gestione del fenomeno migratorio nel pieno rispetto dei principi della Convenzione di Ginevra”. Se ne parlerà negli incontri di oggi, perché arrivati a questo punto il testo del memorandum varato dal Viminale-Minniti nel 2017 andrebbe emendato — dato che la scadenza per il rinnovo tal quale è passata. Le critiche dicono che l’Italia abbia inviato le proposte di modifica fuori tempo massimo solo per accontentare le posizioni politiche più di sinistra (sia nel Pd che nel M5S).

La visita arriva anche in un momento molto delicato per le relazioni diplomatiche italiane. Roma è in mezzo tra Turchia ed Egitto (e Qatar ed Emirati Arabi), ossia tra le due sponde che — ora con aggressività e intensità mai vista prima — sostengono i diversi fronti in Libia.

Con Ankara, che arma Tripoli (e Misurata) le relazioni sono buone, e c’è la volontà di mantenerle tali: anche perché la Turchia è garante, per conto dell’Ue, del controllo migratorio della cosiddetta rotta balcanica, che la crisi di Idlib rischia di riattivare (e infatti i turchi non perdono occasione per denunciare la situazione in una fase caldissima del confronto con regime siriano e alleati russi). Inoltre da sempre l’Italia è partner e protettrice del Gna, che nel 2016 contribuì fisicamente — attraverso intelligence e forze speciali — a installare ad Abu Setta (la base tripolina usata come ufficio dall’esecutivo di Fayez al Serraj). Dietro i turchi c’è il Qatar, con cui l’economia e l’industria italiana, soprattutto lato difesa, ha ottimi rapporti.

Col Cairo però c’è una nuova fase di avvicinamento. L’allineamento sul quadrante nevralgico del Mediterraneo orientale va oltre la dimensione geo-economica che lega l’Eni ai principali pozzi scoperti. È qualcosa dal valore geopolitico che connette l’Italia a un sistema in evoluzione di cui sono parte Egitto, appunto, e Grecia, Cipro e Israele, ma su cui il peso diplomatico e politico gettato da Stati Uniti e Francia è importante. La Libia è un dossier collegato a EastMed, quadro nettamente pro-Haftar (con spinta da remoto emiratina: da notare che il fondo di investimento sovrano emiratino, Mubadala, è nella shareholding egiziani gestiti da Eni). Non a caso negli ultimi giorni, mentre una nave della Marina staziona a Larnaca, si è saputo che l’Italia sta chiudendo con l’Egitto un accordo militare molto importante, nonostante i due paesi abbiano questioni scabrose come il caso Regeni (e quello nuovo riguardante lo studente dell’UniBo) ancora irrisolte.

All’interno di questo delicatissimo quadro diplomatico e politico si muove in Libia il ministro Di Maio, che ieri era a Parigi per incontrare il suo omologo francese. Al Quai d’Orsay — che negli anni passati è stato protagonista delle divisioni nella lettura della crisi libica, più onusiana dagli Esteri, più pro-Egitto/Emirati e dunque haftariana alla Difesa — si è parlato di nuovo di una missione europea. Necessità secondo l’Italia, perché nessuno “può fare da solo”, ha detto Di Maio citando l’intervento turco e criticando le continue violazioni dell’embargo sulle armi; elementi che spiegano come ormai il “conflitto civile si è trasformato in una proxy war” tra vari attori esterni.

La politica libica dell’Italia a questo punto diventa un pendolo tra dinamiche contrapposte Turchia/Egitto-Emirati, interessi strategici nel Mediterraneo, bilanciamenti di potere all’interno dell’Ue, e la necessità di tenere d’occhio anche le relazioni con paesi interessati in via diretta dal conflitto per ragioni di contiguità geografica, e con cui l’Italia ha ottimi link. Su tutti Algeria e Tunisia.

 

 

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