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La politica estera non sia ostaggio del caso Zaki. L’opinione di Tricarico

“La politica estera di un Paese non può essere ostaggio di episodi singoli, per quanto tragici possano essere”. L’Egitto resta un interlocutore “fondamentale”, soprattutto per il dossier libico. Parola del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare. Formiche.net lo ha raggiunto per commentare la riattivazione del dibattito sui rapporti da tenere con l’Egitto in seguito alle notizie relative all’arresto e alle torture subite da Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna.

Generale, il caso Zaki rischia di impattare sui rapporti tra Roma e Il Cairo che lentamente stavano ripartendo. In Italia il dibattito si è riacceso. Come la vede?

L’impressione che stiamo facendo la parte degli utili idioti è molto forte, anche se non dimostrabile. E con “utili idioti” intendo la possibilità di essere diventati uno strumento inconsapevole per il perseguimento di finalità altrui.

Di chi?

In questo caso non è difficile immaginare chi possa avere a cuore un deterioramento dei nostri rapporti con l’Egitto, anche senza fare nomi.

Perché l’Italia non dovrebbe alzare la voce sul caso Zaki?

Stiamo probabilmente parlando di un cittadino egiziano che ha subito la sorte di centinaia di altre persone, forse di chiunque abbia manifestato dissenso o critica contro il potere. Ammettendo che siano accadute le cose riportate, non si capisce perché dovremmo fare i guardoni, ma soprattutto perché dovremmo mettere sul piatto della bilancia i rapporti con uno Stato cruciale nell’area. L’Egitto è fondamentale per regolare il difficoltoso dialogo con Khalifa Haftar nella ricostruzione della Libia. Bisognerebbe poi capire se le torture siano appurate o se la fonte sia solo Amnesty International. Soprattutto in un’epoca di fake news, l’alterazione al ribasso dei nostri rapporti con Il Cairo non credo faccia al caso nostro.

Perché?

Per continuare ad avere un ruolo in nord Africa, per i nostri interessi, per il peso che l’Egitto ha nel quadro delle relazioni internazionali e, non ultimo, per le attività commerciali e di export di materiali di difesa.

Il caso però fa tornare alla memoria l’uccisione di Giulio Regeni.

Associarlo con il caso Regeni è totalmente improprio per le ragioni che ho spiegato. Come il caso Regeni, il caso Zaki merita certamente rispetto, ma differisce perché non merita un comportamento attivo da parte del governo italiano. È bene ricordare che la politica estera la fa il titolare della Farnesina sotto l’indirizzo del presidente del Consiglio. A loro spetta mettere in conto tutto, ma la politica estera non può certamente essere ostaggio di episodi singoli, per quanto tragici possano essere. Se veramente dovessimo rapportare la qualità dei rapporti internazionali ai comportamenti dei partner comincerei dalla Turchia.

Che intende?

È strano che lo stesso scandalo non sia stato generato dopo il cosiddetto golpe del 2016 o alla luce dei continui tentativi di martirizzare l’etnia curda. Ci vuole coerenze in tutto. Se il parametro sono i diritti umani, la lista sarebbe lunghissima e il regime di al Sisi non sarebbe ultimo. Tra l’altro, il comportamento italiano risulta nei fatti molto più censurabile se si pensa che è la parola di un Paese debole. La nostra denuncia non avrebbe probabilmente alcun effetto significativo. Come al solito, non c’è la consapevolezza di un Paese unito e coeso, e questo rende ancora più improbabile l’efficacia di una denuncia.

Ha parlato del rapporto con l’Egitto per il peso su Haftar. Ma è credibile la strategia di dialogare con tutti?

È una strategia esemplificativa. Se si vuole risolvere un problema, occorre dialogare con tutte le parti in causa, anche se sono una demoltiplica estremamente nebulizzata di aventi titolo a dire una parole sulle proprie sorti. In Libia ci sono gli attori principali, le municipalità, le varie milizie armate e molteplici gruppi. Il dialogo risolutivo può arrivare solo da una grande conferenza che coinvolga tutte queste comunità.

Può farlo l’Italia?

No, ma possiamo certamente promuoverla.

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