Skip to main content

Eni, Enel, Leonardo e le altre. Ecco il vademecum per le nomine

Di Alessandro Aresu

Tutti hanno più o meno sentito evocare sui media il momento delle nomine delle società a partecipazione pubblica. È un appuntamento che accompagna la vita di numerosi governi, con una prolungata discussione che si concentra sui seguenti punti: i profili degli amministratori delegati uscenti di Eni, Enel, Leonardo, Poste e le altre società coinvolte; la loro supposta vicinanza ad alcune personalità politiche; il ruolo delle nomine nella vita del governo di turno.

Poi la curiosità passa, le nomine avvengono e si passa alla prossima puntata. I governi passano, le nomine restano.

Tuttavia, al di là di alcune indiscrezioni, quello che colpisce è il ridotto approfondimento attorno al momento in cui il ministero dell’Economia e delle Finanze comunica il deposito delle liste per il rinnovo degli organi sociali. Ancor più delle modalità di decisione, il punto dirimente riguarda il merito e il futuro delle società in questione. In alcuni casi, i vertici uscenti delle principali aziende a partecipazione pubblica sono sentiti a livello parlamentare, per esempio presso le commissioni su attività produttive e industria. In altri casi, ciò non accade. Comunque, le audizioni non danno forma a un dibattito chiaro sul ruolo di tali società nel nostro Paese, nelle sue capacità tecnologiche e occupazionali, nella sua proiezione internazionale. E si tratta di un ruolo di primo piano. Pertanto, è utile capire perché le società a partecipazione pubblica siano importanti e quale sia la vera posta in gioco, provando a ovviare – almeno in parte – a questa grave carenza del nostro dibattito pubblico, evitando di fare i nomi degli attuali vertici delle aziende e dei principali nuovi candidati. Perché dobbiamo imparare a guardare il merito della questione, anche al di là delle singole personalità.

Anzitutto, perché le società a partecipazione pubblica contano, nell’economia e nella politica italiana? È un punto che ho toccato spesso su Limes. Se non lo affrontiamo, non è possibile capire il nostro Paese.

Tra i presupposti della stagione delle privatizzazioni, negli anni Novanta, vi era la “depoliticizzazione”. Lo cita direttamente lo stesso discorso di Mario Draghi sul panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, di recente pubblicato con mia traduzione e mio commento. In sintesi, la depoliticizzazione era l’idea che fosse necessario ridurre il potere di condizionamento politico nell’economia, che aveva creato dinamiche corruttive, inefficienti e di intermediazione impropria. Fino, eventualmente, a un’uscita totale dello Stato dalla maggior parte delle aziende.

Trent’anni dopo, cosa è successo? Occorre ammettere, con sincerità e al di là delle varie opinioni politiche, che l’importanza delle nomine delle società pubbliche e para-pubbliche nella vita del Paese non è diminuita. È aumentata. Anche perché le società controllate dal ministero dell’Economia e dalla Cassa Depositi e Prestiti dominano Piazza Affari, una borsa rimasta piccola rispetto alle omologhe europee per via dello scarso numero di grandi e medie imprese quotate. Ecco dunque il paradosso delle privatizzazioni: il sistema dei partiti non esiste più ma le nomine continuano ad esistere. Non solo: sono diventate molto più importanti.

Da un lato perché il “potere di nomina” ha riempito i vuoti di altre forme di potere, che chi è al governo non esercita più, o esercita in termini condizionali o limitati. Dall’altro lato perché, come ha notato Ugo Pagano in un recente e brillante articolo su L’Industria, le privatizzazioni hanno confermato e rafforzato il ruolo delle imprese pubbliche, rispetto a un capitalismo privato italiano che da un lato non riesce a generare grandi imprese adeguate ad affrontare la competizione internazionale e dall’altro – in sintesi brutale – ha gestito peggio dello Stato le imprese pubbliche privatizzate, se consideriamo investimenti, ricerca e sviluppo. È difficile sostenere che le grandi imprese a controllo pubblico siano tra i principali elementi di debolezza del caso italiano (un discorso ben diverso riguarda il “capitalismo municipale”). Questo paradosso andrà studiato nei prossimi anni con più attenzione e maggiore precisione dagli storici e dai decisori, cercando di comprendere le lezioni, le storie di successo e i fallimenti dell’impresa pubblica degli ultimi trent’anni, nelle varie biografie aziendali.

Qual è dunque il panorama italiano? Se scorriamo la fotografia più approfondita sulle società del nostro Paese, fornita dall’area studi di Mediobanca, vediamo che le prime società industriali e di servizi in Italia sono Eni ed Enel. Enel primeggia per fatturato nel 2017, superata di nuovo da Eni nel 2018 (75,8 miliardi di euro contro 73,1 miliardi). Gse (Gestore dei Servizi Energetici) ha un fatturato superiore a Fca Italy e a Telecom Italia, che stanno al quarto e al quinto posto. Il maggiore datore di lavoro nazionale è Poste Italiane, con oltre 134mila dipendenti, seguito da Ferrovie dello Stato, con quasi 83mila dipendenti. In sintesi, tra i primi venti gruppi industriali per fatturato, otto sono a controllo pubblico, sei a controllo privato italiano e sei di proprietà estera.

La coppia Eni/Enel è la più importante del capitalismo italiano del XXI secolo. Per entrambe le aziende, un anno decisivo rimane il 1962. Si potrebbe scrivere un libro sui tornanti del capitalismo pubblico italiano intitolandolo semplicemente 1962.

Nel 2012, per Eni quel cinquantennale è stato l’occasione per ricordare Enrico Mattei (anche con la pubblicazione dei suoi stupendi scritti e discorsi), per Enel si è trattato di celebrare i primi 50 anni, perché il provvedimento di nazionalizzazione del sistema elettrico risale al 27 novembre 1962. Un mese dopo la morte di Mattei. Il fondatore dell’Eni, peraltro, perseguiva il disegno di un ente unitario dell’energia, in cui bisogna inquadrare i suoi investimenti nel nucleare, tema di grande rilievo nella storia di Enel e nelle incertezze del nostro sistema. Anche nel capitalismo a controllo pubblico italiano, in cui non si tratta più di enti pubblici economici, ma di società per azioni, Enel ed Eni hanno condiviso alcuni passaggi.

Enel, pur priva di un grande eroe della fondazione come Enrico Mattei, e senz’altro meno studiata di Eni, è ormai stabilmente la prima società italiana per capitalizzazione di borsa. Da dove viene questo successo? Anche questo non è un tema molto dibattuto nel nostro Paese, ma due passaggi storici sembrano importanti per coglierlo.

In primo luogo, Enel ha cercato deliberatamente la crescita nei mercati internazionali, attraverso una grande acquisizione. Nel 2006 col tentativo di Suez, che ha fatto scattare la contrarietà della Francia e portato, sotto la regia di Chirac, alla successiva fusione tra Suez e Gaz de France: una chiara dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanta politica ci sia sempre stata (e ci sarà sempre) nelle operazioni di mercato europee nei settori energetici e di infrastrutture.

Peraltro, proprio in quel contesto, viene invece avanzata l’opzione di una fusione tra Eni ed Enel, anche da voci autorevoli, come quella di Alberto Clò. Nel 2007 Enel vince un’onerosa battaglia con la tedesca E.ON per il controllo di Endesa, leader di mercato in Spagna. L’acquisizione, che grava sul debito della società italiana, la porta a cambiare, a diventare un’azienda compiutamente multinazionale, con una posizione cruciale in Sud America.

Il secondo punto decisivo della storia di Enel in questo secolo riguarda il modo con cui è stato affrontato il cambiamento del modello di business con la trasformazione energetica: da un lato con l’investimento nelle energie rinnovabili attraverso Enel Green Power, dall’altro lato con la capacità di adattarsi alle tendenze di elettrificazione, decentralizzazione, digitalizzazione. Enel è quindi posizionata da un lato per affrontare la transizione verde a livello europeo, dall’altro per rafforzare la sua penetrazione di altri mercati, in particolare nella sfida africana, che diventerà più concreta in questo decennio. Ma anche più combattuta, come del resto lo stesso nesso tra elettrificazione e digitalizzazione, in cui entreranno altri attori.

Eni rimane l’azienda che rappresenta, più di ogni altra, il senso geopolitico dell’Italia. Da un lato, per il peso della storia, per la profonda concretezza della leggenda di Mattei: non solo nei convegni in Algeria sul suo ruolo nella guerra di liberazione nazionale o nelle foto dei tecnici dell’Eni negli uffici di Teheran della Nioc, ma soprattutto per il tessuto formativo messo in piedi dall’azienda nel corso di decenni, che ha informato della sua esperienza tecnici e classi dirigenti.

Dall’altro lato, per la geografia: la presenza di Eni è cruciale nel Mediterraneo allargato. Anche se mettiamo da parte la Libia, basti pensare all’Egitto e al Golfo, con la recente penetrazione in un Paese chiave dell’area, gli Emirati Arabi Uniti.

Numerose saranno le sfide del prossimo futuro. Non solo sul prezzo del petrolio. Per esempio, si può legittimamente avere poca considerazione per dichiarazioni di esponenti politici, e talvolta di governo, che invitano Eni a una totale riconversione verde. Sono comunque il sintomo di vari fenomeni, più profondi di un tweet.

L’ostilità interna sulle infrastrutture energetiche, che ha creato uno svantaggio competitivo rispetto a Croazia, Albania e Montenegro. E la tendenza generale a pesare gli investimenti sostenibili da parte dei grandi investitori istituzionali, che non può che ripercuotersi anche nel business Eni: da un lato con una “corsa alla sostenibilità” nelle varie attività e dall’altro, più nel medio termine, con la necessità di salvaguardare in un mondo dell’energia profondamente diverso la grande capacità tecnica dell’esplorazione e produzione.

Il cuore dell’azienda, motore di “Stato profondo” dell’Italia. Inoltre, se allarghiamo lo sguardo all’evoluzione di questo decennio a livello geopolitico, sull’attività Eni irrompono alcuni attori in azione nello spazio mediterraneo. Pensiamo per esempio alla Turchia, Paese molto ambizioso, che si pensa come impero, disposto a usare la forza per conseguire obiettivi politici e culturali. Abbiamo avuto alcune avvisaglie di questo approccio. Ne avremo altre nel prossimo futuro, nell’operatività sul terreno.

Leonardo, erede di Finmeccanica dopo il cambio di nome del 2016, è una cruciale azienda tecnologica italiana, settima per fatturato tra le società industriali (oltre 12 miliardi di euro), con più di 46mila dipendenti e un ampio tessuto di fornitori nei settori di riferimento (difesa, aerospazio, sicurezza).

Leonardo opera in settori ampiamente riconosciuti come “strategici” e ha un patrimonio aziendale basato soprattutto sul capitale umano, sulle capacità degli ingegneri, oltre a un elemento di eccellenza di mercato negli elicotteri. Ha quindi un ruolo primario per il patrimonio tecnologico del Paese, che è fondamentale – in ogni potenza – nel presidio e nella promozione dell’interesse nazionale. Leonardo è tuttora un’impresa molto diversificata, con dimensioni ridotte rispetto ai competitor internazionali. La sua fragilità è stata caratterizzata soprattutto dai frequenti ricambi al vertice e alle prime linee del management, oltre che da vicende giudiziarie che si sono concluse con l’archiviazione di Guarguaglini e l’assoluzione di Orsi. Il portafoglio ordini non ha più raggiunto i livelli di dieci anni fa, anche in un mercato in forte espansione.

Numerose scelte quindi attendono l’azienda, che ha affrontato alcune innovazioni organizzative e nella squadra di vertice, ma resta in mezzo al guado di un settore che vedrà probabilmente nel prossimo decennio alcune aggregazioni europee, anche in corrispondenza ai progetti di difesa e alla riorganizzazione della Commissione. Quali scelte saranno compiute? Cederà ulteriormente asset per focalizzarsi in modo indipendente, e diventare una società sul modello di Dassault? Perseguirà in modo deliberato la ricerca di un partner?

Sul piano interno, quale rapporto costruirà con Fincantieri, con cui si è sviluppata una dinamica per certi versi conflittuale, che investe anche la rotta della relazione italofrancese, e in che modo sarà affrontato il rapporto con la rete dei fornitori? Come sarà gestito il settore spaziale, su cui esiste già un’alleanza – di dubbia efficacia – con i francesi e in cui è fondamentale la partecipazione in Avio? E come si ragionerà sulla presenza di Leonardo negli Stati Uniti, in particolare attraverso Drs, acquisita nel 2008 e da sempre oggetto di rumor su eventuali cessioni? Nessuno può saperlo con certezza, perché quasi nessuno in Italia si pone queste domande, perfino in un momento storico in cui è palpabile la necessità di una maggiore attenzione per la cultura della sicurezza e della difesa.

Sono molti altri gli aspetti interessanti delle società a partecipazione pubblica, anche se ci limitiamo solo alla prospettiva strategica e geopolitica. Basti pensare all’intensità tecnologica nelle infrastrutture e nelle reti, e al loro ruolo nel conflitto tra Cina e Stati Uniti, all’incidenza nella loro operatività degli strumenti di controllo degli investimenti esteri.

Alcune operazioni dirette e indirette del ministero dell’Economia e delle Finanze, nell’ultimo decennio, sembrano avere confermato il paradosso delle privatizzazioni. Da un lato, l’incasso delle privatizzazioni non ha cambiato la dinamica del debito pubblico e in vari casi la previsione di incasso presente nelle leggi di bilancio si è rivelata non credibile; dall’altro lato, su tutte le società lo Stato ha mantenuto saldamente il controllo, e lo scrutinio del mercato ha portato alcuni attori – come Fincantieri – a rafforzare il loro attivismo e la loro importanza sistemica. Inoltre, sono state quotate società in alcuni casi poco note alla maggioranza degli italiani, e anche a un pubblico informato, come Enav e RaiWay. Si tratta di società che hanno un forte impatto sulle nostre vite: basti pensare alla sicurezza del volo aereo e al mercato delle torri in Europa, che rappresenta, anche per le prossime evoluzioni delle telecomunicazioni, l’ennesima dimostrazione dell’importanza della dimensione “fisica” della tecnologia.

Questa stessa dimensione è anche una posta in gioco geopolitica. Ne abbiamo avuto un laboratorio, in Italia, già nel 2014 con l’ingresso dei cinesi di State Grid in Cdp Reti, veicolo di investimento che esercita i ruoli di azionista in Terna, Snam e Italgas, le infrastrutture strategiche della trasmissione di energia naturale e della realizzazione, gestione integrata e distribuzione del gas naturale. Anche Cdp Reti sarà interessata da questa tornata di nomine: i ruoli di presidente e amministratore delegato sono tradizionalmente ricoperti dal presidente e dall’amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti.

nominGli studiosi della normativa golden power conoscono il “caso” Cdp Reti per la mancata applicazione di prescrizioni da parte del Consiglio dei ministri del 23 ottobre 2014, in parziale contraddizione con la stessa istruttoria del Comitato di coordinamento. La modalità dell’operazione, con cui i cinesi hanno ovviamente ottenuto un ruolo nella governance, ha rappresentato un passaggio nel triangolo Roma-Washington-Pechino, anticipando gli accordi e le tensioni degli anni successivi attorno alle “Vie della Seta”. È solo un esempio, tra i tanti, di quanto nella rotta delle società a partecipazione pubblica si giochino e si anticipino le prospettive dell’Italia. Ma solo raramente ne siamo consapevoli.

 

 

 

 

*Analisi pubblicata su Pandora Rivista. Le opinioni qui espresse sono strettamente personali e non impegnano le istituzioni di appartenenza pro tempore.



×

Iscriviti alla newsletter