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Giorgia vs Matteo. La competizione che fa bene alla destra

Anche se il liberalismo è un po’ démodé in questi tempi, conviene ogni tanto riportare alla mente i concetti principali di quella dottrina. Ad esempio l’idea di “competizione”, che Dario Antiseri, nel periodo del ritorno in auge del pensiero liberale in Italia (negli anni Novanta del secolo scorso), non si stancava mai di elogiare come valore in sé positivo perché consistente, come ci ricorda l’etimo latino, in un “cercare insieme” (cum-petere) la soluzione migliore ad un problema. Sarà per queste mie reminiscenze, o forse semplicemente per simpateticità personale, fatto sta che io la “rivalità” fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che sarà pure montata un po’ dai giornali ma è nei fatti prima che nelle interpretazioni, la vedo come un fattore positivo e non negativo per il centrodestra italiano (mi ostino a chiamarlo così ma si tratta più propriamente, allo stato attuale, di un destra-destra-centro).

Prima di tutto la rivalità mostra una vitalità insospettata che non è dato vedere a sinistra, ove pure i movimenti che vengono presentati come “nuovi” tipo le Sardine sanno di vecchio (vi ricordate il “popolo viola” o i “girotondini”?) e sono comunque poveri di idee e elaborazioni intellettuali. In secondo luogo, la rivalità sembra ora combattersi su quella che i giornali mainstream chiamano la “presentabilità”, e quindi “credibilità”, dei due leader a livello internazionale. Una questione che non può essere ridotta banalmente all’aspetto, pur importante, dell’“accreditamento” presso le cancellerie e i poteri stranieri in vista di un prossimo ritorno al governo nazionale; ma va vista anche come una ricerca di idee più mature e solide, affinate e articolate, legate a una visione del mondo compiuta piuttosto che all’inseguimento di umori momentanei presenti nell’elettorato.

La stessa diversità di idee e posizioni che si manifesta fra i partiti di destra e al loro interno, anche su scelte di fondo importanti (ad esempio: Stato o libero mercato?), segnala, da una parte, la convivenza pluralistica di più anime, dall’altra, la necessità impellente di una sintesi che sia dialettica e non meccanica (il cosiddetto “fusionismo”). Ma non dimentichiamo ancora che la competizione è anche la palestra in cui si formano i “competenti”, quelli veri e non quelli della vulgata (e ritorna ancora una volta la stessa radice latina nell’etimo). Una classe dirigente nuova e veramente tale, che è quel che è ciò che è finora mancato alla destra, non può nascere in laboratorio, o peggio ancora come prestito da una non meglio intesa “società civile”.

È solo nella lotta, nella sfida a fare ogni giorno meglio degli altri, che essa, attraverso prove ed errori, matura gradualmente elaborando idee, programmi, capacità politica. Il cantiere è aperto, e Giorgia e Matteo potrebbero rappresentare per certi versi la punta di un albero molto ben piantato. Quando il processo avrà raggiunto il suo risultato, una classe dirigente nuova ed effettivamente tale si sostituirà naturaliter alla vecchia che arranca. Risultato che, sollecitando un analogo processo a sinistra, forse potrà ridare slancio e vitalità a questa nostra disastrata Italia. In conclusione, una domanda: che la prima stagione della destra al potere, quella berlusconiana, abbia fallito in alcuni importanti obiettivi, non potrebbe essere dipeso anche dalla mancanza di una vera competizione all’interno di un raggruppamento che era anche allora plurale, ma aveva un dominus unico e incontrastato?

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