Per alcuni c’era da aspettarselo, per altri è stato un fulmine a ciel sereno. Fatto sta che la decisione di Annegret Kramp-Karrenbauer, la presidente della Cdu, i cristiano-democratici tedeschi, di lasciare la guida del partito e di rinunciare anche alla candidatura come cancelliere successore di Angela Merkel (che l’aveva personalmente designata un anno fa), ha significanti rilevanti per il futuro politico della Germania e quindi dell’Europa intera.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata senza dubbio la tornata elettorale in Turingia dell’altra settimana, quando, contro le direttive nazionali del partito, la Cdu locale ha collaborato con l’estrema destra nazionalista di Alternative fur Deutschland (AfD) per far eleggere un presidente liberale, poi subito dimessosi, Thomas Kemmerich.
In verità, la Kramp-Karrenbauer non era riuscita, in quest’anno passato da segretaria, a dare una linea coerente al partito, soprattutto a sciogliere il dilemma se continuare o meno sulla linea politica centrista della sua sponsor, ultimamente in notevole affanno elettorale (come d’altronde l’altro partito storico tedesco, i socialdemocratici della Spd). L’alternativa per molti nel suo partito era ed è di spostare decisamente più a destra l’asse del partito, sulla linea dei cristiano-sociali bavaresi della Csu e anche oltre, tenendo però ferma la pregiudiziale anti Afd, un partito che viene accusato di essere razzista e di strizzare l’occhio ai neonazisti.
Quello che sembra chiaro è che un modello politico, impersonato appunto da Angela Merkel, è giunto ormai al capolinea, e con esso anche la sicurezza di una stabilità tedesca. La Germania non è più un’ eccezione nel cuore dell’Europa, ma ne segue la china, con l’avanzare di forze antisistema variamente dette “populiste” e/o “sovraniste”.
La crisi della Germania, che si aggiunge a quella della Francia, destabilizza di fatto anche l’Unione Europea, che d’altronde stenta di suo a trovare quell’equilibrio che l’elezione di Ursula von der Leyen (anch’essa voluta dalla Merkel) sembrava ad alcuni poter garantire.
Dura scelta quella che spetta ora ai popolari e alle forze centriste del continente. È evidente che l’avanzare della destra, e più in generale la polarizzazione delle forze politiche, segnali un disagio profondo da parte dei cittadini: un disagio che non può essere governato con le ricette classiche dell’ordiloberalismo che aveva accompagnato l’affermarsi della globalizzazione a partire dalla caduta del “muro di Berlino” trent’anni fa (ma sembra un secolo!).
Oggi le parole d’ordine sono identità e protezione, sicurezza e controllo dell’emigrazione, ritorno alla nazione e lotta ai privilegi. Sarebbe cieco non prendere in considerazione, o deridere, queste richieste dei cittadini. Così come pensare che il disagio sia un “male passeggero”, destinato, come una brutta influenza, a essere superato. Tutto lascia presagire il contrario. Volenti o nolenti, siamo entrati in un nuovo secolo e dobbiamo adattarci, limitando i danni per la nostra libertà e aspettando qualche opportunità.
Il “male” è sistemico e la linea del “cordone sanitario” a difesa delle nostre democrazie potrebbe non funzionare, e anzi essere esiziale accelerando la débacle del modello europeo. Che va comunque radicalmente ripensato. D’altra parte, il rischio è che, fra un partito di centro che si sposta a destra e la destra radicale, gli elettori preferiscano alla fine la seconda. Ma è un rischio che, a mio avviso, va corso. Lo scontro frontale non paga. Meglio sarebbe allora per tutti, e anche per il futuro delle nostre democrazie, usare le armi del dialogo, cioè della politica, non chiudendosi a riccio nei confronti dei “barbari invasori”, collaborando nella misura del possibile con loro e provando a scardinarli dall’interno recependone e istituzionalizzando le loro istanze più plausibili.