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Perché è la volta buona per una legge sulle lobby. L’intervento di Vittorio Cino

Dopo tre decenni di discussioni e decine di proposte di legge che ingolfano gli archivi parlamentari, ecco l’ennesimo tentativo di regolamentare la rappresentanza dei gruppi di interessi, in poche parole le lobby.

Nella Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati è iniziato, senza fretta, l’itinerario legislativo che dovrebbe portare finalmente alla regolamentazione dell’attività di lobby. In tale contesto si spiega l’iniziativa intrapresa dall’American Chamber of Commerce in Italia che ha organizzato una tavola rotonda e presentato le sue raccomandazioni su tale materia, frutto dell’attività di uno specifico gruppo di lavoro composto da decine di grandi aziende, italiane e americane, nonché di alcuni tra i più importanti studi di consulenza di public affairs. Il lavoro si è inoltre avvalso dell’esperienza e della competenza giuridica del professor Francesco Clementi, che ha offerto una serie di soluzioni giuridiche che hanno suscitato ampia attenzione tra i proponenti dei disegni di legge presenti all’evento.

Senza entrare nel dettaglio delle singole raccomandazioni, spiccano alcuni elementi meritevoli di attenzione. Prima di tutto, una questione di fondo. Sarebbe profondamente sbagliato affrontare il tema della rappresentanza di interessi partendo dalla sua patologia e quindi legiferando in una modalità che si concentra esclusivamente sul tema della corruzione, quasi come se l’attività di lobby fosse un fatto spiacevole ma purtroppo ineliminabile, sebbene da limitare, ridurre, conculcare. In realtà è vero il contrario.

La rappresentanza dei gruppi di interesse è un elemento costitutivo nell’ambito del processo legislativo in un Paese democratico e pluralista. Non esiste attività di lobby in Paesi autoritari, a partito unico o democrazia limitata. La dinamica dei gruppi di interesse si sviluppa in società evolute, aperte, pluraliste e basate sulla competizione degli interessi. Ruolo della politica e dei partiti rimane quello di mediare e individuare il più corretto interesse generale. Per anni abbiamo pensato che regolare l’attività di lobby significasse principalmente regolare l’accesso al “Palazzo”. Come se l’attività di lobby si riducesse allo stazionamento dei lobbisti nel Transatlantico di Montecitorio e non investisse invece ogni modalità di relazione (incontro pubblico o privato, evento, fondazioni e think tank) e ogni livello della amministrazione pubblica su base nazionale e regionale. Occorre incardinare la regolamentazione dell’attività dei rappresentanti di interesse nell’ambito della necessità di una sempre maggiore trasparenza del processo decisionale, in tutte le sue fasi. La trasparenza del lavoro di lobby passa necessariamente attraverso una registrazione unica e obbligotoria dei gruppi di interesse particolari e dei loro rappresentanti. Passa attraverso una completa tracciabilità degli incontri e delle consultazioni che intervengono sia prima che durante l’iter legislativo.

Dovrebbe imporre ai lobbisti un chiaro e stringente codice di condotta. Stesso dovere di trasparenza anche per i decisori. Ridurre il potere discrezionale e allargare, entro tempi certi, la fase di consultazione aprendola a tutti i gruppi di interesse direttamente o indirettamente “colpiti” da una determinata decisione e provvedimento.

L’esperienza europea e quella di specifici Paesi come la Francia e la Gran Bretagna, mostrano come sarebbe estremamente utile allargare tutte quelle modalità di ascolto e consultazione tese a misurare un adeguato impatto della legislazione sia in fase preventiva sia in quella successiva, necessaria a verificare che gli intenti di una normativa siano stati raggiunti e ogni distorsione evitata. In ambito italiano questa significa armonizzare i diversi regolamenti parlamentari, ministeriali e regionali che in questi anni, in assenza di una normativa nazionale, sono proliferati introducendo contraddizioni e confusione tra gli addetti ai lavori.

Insomma, regolare l’attività dei gruppi di interesse non significa solo rendere trasparente il lavoro di migliaia di professionisti che oggi corrono il rischio di essere accomunati a procacciatori d’affari, malfattori, mediatori border line e veri e propri corruttori. Significa altresì rafforzare le modalità partecipative di una democrazia dove la crisi dei partiti e degli altri corpi intermedi hanno inflitto innumerevoli colpi di scarsa credibilità e inefficienza. In un contesto in cui le riforme istituzionali hanno almeno momentaneamente perso ogni appeal e mentre già si accende il dibattito sulla futura riforma elettorale, forse non dovremmo sottovalutare che la riforma dell’attività di lobby potrebbe essere un primo passo concreto verso un rinnovato patto democratico tra società politica, società economica e società civile.

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