Figlia di una legge elettorale perversa che si è ribellata contro i propri ideatori, la XVIII legislatura sarà probabilmente ricordata come la più bizzarra e irrazionale della storia repubblicana.
Il nostro, come è noto, è un sistema basato sulla centralità del Parlamento, luogo deputato al farsi e disfarsi delle maggioranze: elemento che, ammesso e non concesso avesse un senso nella cosiddetta “prima Repubblica”, ne segna oggi la sua palese inefficacia.
In prima istanza, c’è da considerare che il sistema politico tradizionale, strutturato su partiti dalle identità forti, ben definite intorno a blocchi di interesse sociali omogenei e a culture politiche stratificatesi nel tempo, ha ceduto il posto a partiti fluidi e postideologici, espressione di una società atomizzata e senza ideali, per lo più basati sulla personalità di un leader che parla direttamente coi suoi potenziali elettori.
Secondariamente, si deve tener conto del fatto che tale fluidità si riflette ovviamente in una mobilità dell’elettorato che, frutto di scelte per lo più emotive, viene continuamente misurata da sondaggi quotidiani e da tornate elettorali ravvicinate che, seppur locali, riversano tutto il loro peso sulla politica nazionale. Se a ciò aggiungiamo che il partito di maggioranza relativa, e quindi l’ago della bilancia, in questo Parlamento, il Movimento Cinque Stelle, è, da una parte, il più postideologico e indefinito di tutti, e, dall’altra, anche in caduta libera nel consenso fra gli elettori, ci rendiamo conto con facilità di come l’intero sistema sia sottoposto a stress test giornalieri che, in altre situazioni, porterebbero sicuramente a conseguenze fatali.
L’impressione è invece che, nonostante tutto, il secondo esecutivo guidato da Giuseppe Conte sia destinato a durare e l’intera legislatura a essere portata a termine. Le vicende e le voci che vengono in questi giorni dal sottobosco politico ne sono la conferma, attestando, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la situazione sia grave ma non seria, per dirla con Ennio Flaiano.
A un Matteo Renzi che minaccia di uscire dal governo e persino dalla maggioranza, si oppone un Conte che, si dice, è pronto a sostituirlo con un gruppo di “responsabili” pronti a votarlo su una eventuale richiesta di fiducia in Parlamento. Non solo: per neutralizzarlo, si vocifera anche che, in una sorta di gioco di specchi infinito, Renzi stesso si sia messo alla ricerca con successo di “contro-responsabili” pronti a cambiar casacca e a passare invece con lui. Il tutto in un profluvio di atti e parole che però sembrano non arrivare mai al punto finale.
Il perché è presto detto, ed è proprio in quella perdita di senso e di ideali che caratterizza la politica attuale. Far cadere un governo significa infatti rinunciare al proprio seggio, perdendo la capacità di influire sulle situazioni in atto politicamente. Il che è possibile solo in presenza di una delle seguenti condizioni: che si abbia una idea forte da difendere, come potevano averla i politici di un tempo per cui il partito in quanto portatore di un’ideale era più importante del posto in Parlamento; oppure avere la buona possibilità di essere rieletti anche in una prossima legislatura.
Possibilità che in verità non si dà per nessuno, anche in virtù della legge, presto confermata dal Parlamento, che taglia i parlamentari (e che non può essere ignorata andando subito alle urne come pure qualcuno vorrebbe). Mancando una di queste due condizioni, la mia previsione è che i tuoni continueranno accompagnati da venti tempestosi, ma il ciclone non arriverà e l’acqua non cadrà…