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Come rispondere alla politica del coronavirus. Il commento di Pennisi

Ne “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni viene presentato un quadro eloquente di ciò che possiamo chiamare “la politica del virus”. Di fronte ai primi casi, gli intellettuali del regime – l’autoritario sistema borbonico che vigeva a Milano – negano l’esistenza della peste discettando che non esiste in quanto non si tratta né di “sostanza” né di “materia”. Quando la peste si diffonde, accusano, dapprima, le “congiunture astrali” e, successivamente, mettono appestati e coloro a rischio di esserlo nel lazzaretto dove il contagio si diffonde ancora di più. Sull’altra sponda dell’Adda, nella Repubblica Veneta, isolati rapidamente i primi casi, si blocca l’epidemia sul nascere.

Anche ne “La Peste” di Albert Camus viene esaminata “la politica del virus”. In una prima fase, viene preso sottogamba. In una seconda, le autorità reagiscono con veemenza eccessiva e hanno ancora una volta il risultato di facilitare in contagio in un’Orano in cui sono state sigillate le porte della città.

Poco si è parlato sulla stampa italiana della “politica del coronavirus”, terza grande epidemia in meno di vent’anni che nasce in Cina e mette a rischio il mondo. Dai giornali americani e soprattutto da quelli di Singapore (il 90% della cui popolazione è cinese ma poco ha a che fare con il regime di Pechino) si può trarre un quadro eloquente. Le prime avvisaglie del coronavirus a Wuhan datano dal primo dicembre e già a metà dicembre la professione medica della città tentava di dare l’allarme. La reazione di Pechino è stata repressiva: bavaglio alla stampa ed ai medici – alcuni incarcerati perché avrebbero diffuso “notizie false” al fine di screditare il Paese.

Quando ci sono stati i primi morti (tra cui alcuni stranieri), sono stati diramati comunicati per dire che si trattava di un “virus patriottico” che non contagiava i cinesi. Solo il 31 dicembre, Pechino ha informato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma per buona parte di gennaio, ha continuato a tenere nel buio più nero i concittadini cinesi sino a quando il 31 gennaio, letteralmente travolto dagli avvenimenti, il governo ha posto in quarantena Wuhan; nel contempo diversi milioni di persone erano entrati ed usciti dalla città senza prendere precauzioni. In breve, per settimane, Pechino ha dato la priorità a celare l’esistenza del virus invece che a misure per evitare l’epidemia. Come il Don Ferrante di manzoniana memoria. Anzi peggio del borioso Don Ferrante perché l’autocrazia che regna nella Città Proibita aveva obiettivi chiari di politica interna ed internazionale: celare il coronavirus per tentare di evitare nuove tensioni e rivolte interne (pare ce ne siano in varie province) e stringere rapporti internazionali vantaggiosi.

Occorre chiedersi come rispondere a questa “politica del coronavirus”. In altri tempi, i Paesi con più stretti rapporti con Pechino avrebbero utilizzato, almeno, la diplomazia richiamando gli ambasciatori sino a quando non si fossero avute spiegazioni esaurienti dal governo cinese.

In Italia temo che non si farà nulla e che il nostro ministro degli Esteri continuerà a piegarsi di fronte agli autocrati di Pechino.

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