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Il nostro export crescerà anche nel 2020 (nonostante tutto). Parola di Terzulli (Sace Simest)

Tensioni e rivalità tra Stati Uniti, Cina ed Unione Europea, una Brexit ancora tutta da gestire, crescente instabilità, criticità finanziarie e indebitamento di diverse economie emergenti: si profila un anno molto complesso sui mercati esteri e per chi, come le imprese italiane, fa dell’export e dell’internazionalizzazione il proprio motore di crescita. Con il convitato di pietra, il coronavirus, che potrebbe destabilizzare l’economia mondiale, causando non solo la frenata in Cina (si parla già di un Pil in decrescita dello 0,6% a 5,4% per il 2020) ma anche quella europea e dell’Italia in particolare. Un focus per capire dove va il nostro export arriva dalla “Mappa dei rischi” messa a punto dall’ufficio studi di Sace Simest e Formiche.net ha chiesto ad Alessandro Terzulli, responsabile ricerca e studi della società di fare un punto della situazione.

Partiamo dal coronavirus, presto per fare stime, ma quanto sta influenzando la crescita dell’economia globale?

È chiaro che lo scoppio dell’epidemia pone preoccupazioni sulla crescita dell’economia. Avrà un impatto certamente sulla Cina, almeno nel breve termine. Sotto l’ipotesi che l’emergenza rientri in tempi rapidi, scenario più che probabile, nella seconda metà dell’anno le imprese cinesi dovrebbero compensare, almeno parzialmente, la produzione persa a inizio 2020. Le attese per il paese asiatico sono di un aumento del Pil del 5,4% nel 2020, ben 0,6 punti percentuali in meno rispetto alle stime di inizio anno, secondo Oxford Economics. E il coronavirus avrà impatti anche a livello settoriale, i più esposti sono quello del lusso, i metalli e l’oil che risentiranno del calo dell’import di Pechino.

Nell’ultima analisi Sace Simest parlavate comunque di una crescita del nostro export del 2,8% per il 2020 con l’obiettivo di raggiungere i 500 miliardi di export. È un traguardo ancora raggiungibile?

Stiamo monitorando la situazione, quello era uno scenario base, oggi riteniamo che sia un numero alto della forchetta. A mio avviso, se l’effetto generale da coronavirus tenderà ad essere intenso nella prima parte dell’anno ma meno forte nella seconda parte, il nostro export continuerà comunque a crescere nonostante tutto, anche se il 2,8% è molto difficile da raggiungere. Bisognerà soppesare tutti gli eventi di rischio, a partire proprio da questo gigante invisibile che è il coronavirus.

Lo scorso anno è stato caratterizzato dalla guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti. Si potrebbe riacuire anche in questo 2020 visto le presidenziali americane?

Con il mini deal del 15 gennaio scorso si è posto fine ad una escalation almeno temporaneamente, però ricordiamo una cosa: prima del 2017 il dazio medio sui beni importanti dagli Usa in Cina era di sei volte inferiore a quello di oggi, poi siamo saliti al 21% e ora siamo scesi al 19,3%. Ricordiamo inoltre che su 250 miliardi di beni importati dalla Cina il dazio è sempre del 25%, quindi non c’è stata un’inversione di tendenza completa e dei dubbi sostanzialmente rimangono.

Dazi che potrebbero colpire anche l’Italia?

Gli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale e, fino a novembre, sulla fase due, quella dei dazi che dovrebbe colpire più i beni tecnologici, credo che non avverrà nulla. Speriamo che l’attenzione Usa non si sposti però verso l’Unione Europea. Ricordiamo il verdetto del Wto nell’ottobre scorso relativo al dossier Airbus-Boeing, che ha dato il via libera a 7,5 miliardi di dollari di dazi americani nei confronti dei Paesi europei.

Dove è stato colpito anche il nostro Paese…

Sì, anche l’Italia è stata colpita. Le misure hanno interessato esclusivamente beni dell’agro-alimentare che nel 2018 hanno generato circa 400 milioni di euro di vendite negli Usa. Tra questi vi sono formaggi, frutta e conserve, liquori, salumi e insaccati; sono esclusi invece, vino e olio d’oliva che pesano il 62% delle nostre esportazioni alimentari verso Washington. Per fortuna la revisione trimestrale della lista dei beni soggetti ai dazi autorizzati dal Wto effettuata dagli Stati Uniti il 14 febbraio scorso non ha prodotto, in sostanza, alcuna modifica sui beni made in Italy.

Altro tema è la Brexit che, dopo tre anni, è finalmente diventata reale. Che ripercussioni calcolate per le nostre imprese?

Siamo adesso in un regime di transizione, da qui a fine dicembre dovrà essere negoziato un accordo commerciale di alto livello. I tempi non sono brevi, se consideriamo, ad esempio, che per il Ceta ci sono voluti circa 4 anni di negoziazioni. Si aprono due scenari: uno per un ulteriore rinvio, anche se il premier Johnson dice di non volerlo. Oppure si arriva comunque a stringere un accordo.

E per le nostre imprese cosa potrebbe accadere in questo secondo scenario?

Per noi il Regno Unito è il quinto mercato di destinazione per l’export, con 23 miliardi di euro di beni e abbiamo un avanzo commerciale notevole. Se c’è un’uscita senza accordo il primo impatto potrebbe essere nel 2021 di una mini recessione e, quindi, una minore domanda e un minore export da parte nostra. La sterlina potrebbe anche deprezzarsi rispetto all’euro che si traduce in una minore competitività delle nostre merci e infine si passerebbe sotto il cappello del Wto che prevede dei dazi, anche se minimi, su alcuni settori del nostro made in Italy, come l’agroalimentare ma anche le pelli o le calzature, che renderebbero i nostri beni più costosi.

Nel vostro studio mettete in evidenza anche il rischio del credito. Quale il pericolo maggiore?

Le situazioni sono diverse da Paese a Paese, abbiamo una metodologia che passa al setaccio 199 Paesi nel mondo. Tra questi ci sono dei casi estremi per vedersi riconoscere il credito come ad esempio con la Libia, la Siria, la Corea del Nord, il Venezuela, alcune realtà mediorientali o dove ci sono dei conflitti in corso ma anche paesi come l’Argentina che ha un’insostenibilità del debito, come certificato anche dal Fmi. E perfino per Hong Kong, con le recenti tensioni è salita la preoccupazione anche se in uno store da 0 a 100 siamo a 20, quindi comunque molto basso, con un buon profilo di credito.

Per fronteggiare la crisi in questi anni si è assistita ad una politica accomodante della Bce che ha creato anche un’eccessiva liquidità. Questa linea di indirizzo è ancora attuale?

Non solo Bce, ma anche la Fed ha usato questa politica che ha consentito all’economia globale di uscire dalle secche, solo che queste politiche più vengono ripetute nel tempo e più a margine l’effetto tende a diminuire. Al di là dell’eurozona questa enorme liquidità che è stata creata ha trovato sbocco nei mercati con i tassi d’interesse più alti e quindi dove ci sono anche maggiore rischi degli investimenti.

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