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Così Italia Viva vuole dare una scossa all’innovazione (e non solo). Parla Mattia Mor

Di Mattia Mor

Italia Viva fa della crescita economica, che significa maggiore occupazione e maggior fiducia delle famiglie nel futuro, uno dei propri obiettivi di governo. Questo è un elemento chiaro e prioritario della nostra azione politica, come dimostrato dagli anni dei governi Renzi e Gentiloni e dallo stimolo che abbiamo dato al governo Conte in questi primi mesi di azione di maggioranza.

La nostra visione ritiene imprescindibile l’idea che vadano aumentate le occasioni di creare ricchezza e distribuirla in modo più equo, lavorando affinché ciò che uno otterrà non dipenda da dove parte. L’ascensore sociale, da troppo tempo fermo, ripartirà però solo se sapremo creare le condizioni per una crescita stabile e sostenuta, che dia la possibilità ad ognuno di poter immaginare il proprio futuro in Italia, senza dover vedere nella necessità di espatriare l’unica possibilità.

Tra le modalità di stimolo della crescita, pur essendo poco prioritaria nel dibattito pubblico, l’innovazione ha il primo posto. Non ci sono dubbi a riguardo, non è un’opinione: i Paesi che crescono di più e che hanno più fiducia nel futuro sono quelli che hanno innovato e continuano ad investire in innovazione.

E l’Italia in questo langue, purtroppo. Davanti alle trasformazioni che stanno accadendo nel mondo, davanti alla perdita di posti di lavoro, alla rivoluzione che l’intelligenza artificiale porterà, è compito della politica dare risposte ai cittadini che non stanno riuscendo a salire sul carro dell’innovazione, e di questa vivono le paure.

Ma noi vogliamo dire con chiarezza però che innovazione vuol dire soprattutto opportunità, creazione di nuovi posti di lavoro, efficientamento dei settori industriali e artigianali in cui l’Italia è leader e sviluppo di nuovi.

Innovazione e formazione sono tra l’altro i più importanti fattori di promozione di inclusione e pari opportunità, sia in termini di lavoro femminile e giovanile che di rapporti tra le diverse aree del Paese.

Se nel mondo globale del XXI Secolo l’innovazione è il maggior fattore di sviluppo economico, l’attrazione di investimenti per la creazione di nuove aziende, le cosiddette start-up, è il maggior fattore di innovazione. Creare start-up in Italia, pur essendo il Paese con il più alto risparmio privato, però è molto più arduo rispetto agli altri Paesi europei, come dimostra il volume degli investimenti privati tra il 2015 e il 2019: 6 volte in meno della Francia, 8 rispetto alla Germania e 15 rispetto al Regno Unito.

Una distanza non accettabile per un Paese che è la terza economia europea e il secondo esportatore, ma è solo il decimo d’Europa per investimenti in nuove aziende, dietro anche a Paesi piccoli come l’Olanda, l’Irlanda e la Finlandia. Nel mondo della tecnologia si definiscono unicorni aziende che riescano ad arrivare ad una valutazione di un miliardo di dollari.

Il numero di unicorni nati in ogni Paese può essere un indicatore del tasso di sviluppo dello stesso e se consideriamo il loro numero in rapporto al numero di abitanti, otteniamo una classifica interessante. Dietro a San Francisco ci sono Stoccolma, Seattle, Berlino, Pechino, Los Angeles, NY, Helsinki e Londra.

La presenza in questa classifica di Stoccolma o Helsinki, dove tra l’altro la chiusura di Nokia ha lasciato un deserto di disoccupazione impressionante, dà l’idea di quanto nazioni piccole ma proiettate verso il mondo abbiano saputo trarre profitto dall’hi-tech, con scelte politiche di lungo periodo.

Fra il 2003 e il 2009 nel mondo sono nati 8 unicorni, nel 2015 erano 159, entro il 2025 saranno più di 300, ma sapete quanti ne sono nati in Italia negli ultimi 20 anni? Zero. Se arrivare a questo traguardo vuol dire creare lavoro per decine di migliaia di persone e realizzare sogni di ragazze e ragazzi che vi mettano tutti se stessi, è nostro dovere fare tutto il possibile perché anche da noi questo accada.

Ma può accadere solo mettendo in atto delle politiche per attrarre sempre più investimenti e sempre più capitale umano, e valorizzando, senza farli partire, giovani che da noi trovino le condizioni per investire su se stessi ed innovare. Perché gli Italiani hanno un enorme talento, come dimostrano tantissimi imprenditori e lavoratori italiani che ho incontrato in giro per il mondo, basati però a San Francisco, Londra, Berlino o Singapore, perché lì hanno trovato un ecosistema più pronto a finanziarli e farli crescere.

Ma questo sembra aver interessato sempre poco la politica. Italia Viva vuole superare questo scoglio e dare una scossa al mondo dell’innovazione italiano. Già lo scorso anno ho depositato alla Camera una proposta di legge, lo Start Act, che arriverà in aula nei prossimi mesi, per far entrare nella testa della politica una cosa: le nuove imprese innovative rappresentano LA chiave di sviluppo italiana.

Lo Start Act parte dunque prevedendo una serie di incentivi e sgravi fiscali per finanziare le nuove imprese. A cominciare dagli investimenti privati, dedotti o detratti fino al 70% del capitale investito, o attraverso la creazione di uno o più fondi pubblici che co-investano insieme ai fondi di venture capital italiani e stranieri.

Per proseguire con l’obbligo per i fondi pensione, fondi assicurativi e casse previdenziali di investire lo 0,5% della propria raccolta in fondi che investano in start-up e PMI innovative, prevedendo un credito d’imposta del 30% di quanto investito. Un grande investimento va fatto però e soprattutto nei confronti del capitale umano, con una decontribuzione strutturale per nuovi dipendenti under 45 di start up e Pmi innovative, e con l’obbligo alle aziende di concedere un periodo di aspettativa ai propri dipendenti nel caso in cui volessero fondare una start-up o per lavorare in una di esse.

Una forte spinta al rientro di capitale umano la darà un pacchetto di misure che prevedono l’esenzione fiscale al 90% per chi torna in Italia per fondare o lavorare in una start-up, i finanziamenti a fondo perduto per chi porti la propria start-up in Italia dall’estero e i voucher per incentivare l’assunzione di manager qualificati.

Per concludere, infine, una serie di incentivi fiscali e fondi destinati alle Università che più investano in acceleratori per trasformare le idee innovative nate nei propri laboratori in brevetti e aziende.

Noi offriamo queste proposte a tutto il Parlamento e al governo, auspicando un consenso trasversale su una tematica così importante per il nostro futuro, con la coscienza che sarebbero un sasso nello stagno e dimostrerebbero al mondo come l’Italia voglia davvero recuperare il terreno perso e porsi al passo dei grandi Paesi innovativi.

È in arrivo una nuova grande ondata di rivoluzione tecnologica, in cui l’Italia potrà giocare un ruolo centrale se saprà investire sulle proprie caratteristiche di creatività, cultura, saper fare artigianale ed industriale, mettendo insieme tecnologia ed umanesimo.

Proprio per le caratteristiche alla base del nostro sistema produttivo, dovremo investire sempre più sulla nostra istruzione e competenze, valorizzando in ogni modo la parte meno meccanizzabile ed attaccabile dell’economia, e riusciremo ad essere dalla parte giusta della Storia, senza perdere il treno della crescita dei prossimi decenni.

Una delle sfide che dovremo affrontare, infine, risiede nella necessità di legare meglio la formazione al lavoro, perché è paradossale che assumere lavoratori specializzati stia diventando un problema per le imprese e che vi siano centinaia di migliaia di posti vacanti per mancanza di competenze.

Un tempo il cambiamento da un lavoro a un altro avveniva tra diverse generazioni, mentre ora accade all’interno della medesima e, se la società non ha tempo di adattarsi, dobbiamo proporre soluzioni per far sì che il passaggio tra i diversi lavori diventi occasione di formazione e non di disperazione.

Significa facilitare la formazione continua, per aiutare i lavoratori ad adattarsi a uno scenario in continua evoluzione, immaginando dunque un percorso formativo che inizi prima (a partire dai nidi), sia più articolato (col potenziamento della formazione tecnica) e duri di più (la formazione diventi permanente).

Tutto questo può avvenire più facilmente se si immagina un lavoro sistemico, di governo, imprese e mondo della finanza, ed è proprio qui che serve più che mai una visione politica chiara del Paese che si vuole lasciare ai giovani.

I giovani che sono scesi in piazza in questi ultimi mesi ci hanno ricordato che dobbiamo porre molta più attenzione ai temi che li riguardano, trascurati da ogni partito politico; vivono il rischio di essere sconfitti in una battaglia tra generazioni che li vede perdenti in partenza, coscienti che le diseguaglianze non sono solo nel reddito ma nelle opportunità.

Sappiamo che sono decine di migliaia i giovani che lasciano il Paese per inseguire il sogno di un futuro più meritocratico e dove possano mettere a frutto i propri talenti. L’Italia deve invece diventare un Paese in cui le opportunità vengano date a chi ha il talento e la voglia di fare ma non ne ha i mezzi. L’Italia che immaginiamo deve avere l’ambizione di diventare un Paese di destinazione per coloro che corrono, non di fuga dove restano solo quelli che combattono da fermi.

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