Skip to main content

Coronavirus, perché serve una Strategia di sicurezza nazionale. I consigli di Elisabetta Trenta

“Il Coronavirus è il nemico numero uno, più sconvolgente del terrorismo”. Le parole del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus offrono spunto utile per condividere alcune riflessioni che discendono dall’esperienza fatta quale capo del dicastero Difesa del primo governo Conte. Domenica scorsa sono atterrati a Pratica di Mare otto italiani provenienti da Wuhan, “epicentro” dell’epidemia di Coronavirus. Sono stati trasportati con aereo militare e, dopo lo screening nell’ospedale da campo appositamente allestito nella base, trasferiti all’ospedale militare del Celio, dove sono in quarantena.

Lo stesso era avvenuto per i primi 56 italiani, arrivati per alla Città militare della Cecchignola dopo essere stati visitati nell’ospedale da campo allestito presso l’aeroporto di Pratica di Mare, dotato anche di zona di massimo isolamento per eventuali casi sospetti. Anche loro giunti con un aereo della nostra Aeronautica Militare, un Boeing 767 che era stato appositamente allestito con tre diverse, aree: quella rossa per il personale in rimpatrio (in coda), quella gialla di decontaminazione (al centro), e quella verde, la cabina con i piloti. Presto un altro aereo, dotato anche di attrezzatura per il bio-contenimento, partirà per andare a prendere un ragazzo di Grado che, a causa della febbre, non si è potuto imbarcare sui due voli precedenti.

Nella task-force nuovo Coronavirus (Coronavirus 2019-nCoV), istituita il 22 gennaio scorso con il compito di coordinare 24 ore su 24 le azioni da mettere in campo per evitare la diffusione dell’epidemia nel nostro Paese, sono presenti tra gli altri anche i Carabinieri dei Nas e la Sanità militare. In particolare mi piace ricordare il protagonismo di una nuova capacità da me voluta e autorizzata. Quella della Medical Situation Awareness (MedSitAw), istituita presso il Reparto formazione e medicina preventiva dell’Ispettorato generale per la sanità militare (Igesan), per valutare, elaborare e monitorare real-time e near real-time il rischio sanitario sia in Patria sia su scala strategica.

Anche la Marina Militare, al pari di Esercito e Aeronautica, sulla base delle predisposizioni già adottate al tempo dell’Operazione Mare Nostrum (dove il rischio sanitario era rappresentato da Sars, Mers e Turbercolosi rinforzata), è attrezzata e pronta allorquando la stessa emergenza dovesse presentarsi dal mare, un’ipotesi tutt’altro che remota se si pensa a quanto poco sappiamo sulla situazione dei vari Paesi africani, soprattutto quelli a noi dirimpettai, anche con riguardo ai migranti che vengono salvati in mare, ad esempio, dalle navi delle Ong. Dunque, le Forze armate si dimostrano ancora una volta essenziali in Italia per la gestione della crisi, come parte importantissima del sistema di Protezione civile, in uno sforzo interagenzia e interministeriale.

Il 7 maggio dello scorso anno si era svolta un’esercitazione, Ianus, proprio a Pratica di Mare, nella quale, sotto la direzione del Comando operativo di vertice interforze, era stato attivato il Sistema della Protezione civile, coinvolgendo taluni dicasteri tra cui i Beni Culturali, l’Ambiente e l’Istruzione (per far assistere all’evento oltre mille ragazzi di alcuni istituti superiori romani). Attraverso Ianus veniva simulata la risposta a una calamità con le seguenti predisposizioni, in parte non molto distanti dal dispositivo attualmente in atto: costituzione sulla nave Etna della nostra Marina di una sala operativa interforze e interagenzia per la gestione dell’evento, soccorso aereo, tutela del patrimonio culturale, passando per il trasporto di malati altamente infettivi e le attività di decontaminazione da sostanze chimico-batteriologiche e radioattive.

Nelle Linee programmatiche presentate alle commissioni Difesa di Camera e Senato all’inizio del mio mandato, avevo posto enfasi su due parole chiave: resilienza e duplice uso inteso nella sua accezione sistemica, quale combinato necessario per adattarsi al cambiamento, nella fattispecie al cambiamento delle tipologie di minacce che il nostro Paese si trova e si troverà ad affrontare, dovute all’incertezza e le instabilità promanate dai vecchi e nuovi scenari, a cui si aggiungono gli effetti, oramai frequenti e devastanti, dei cambiamenti climatici e delle intrinseche peculiarità idro-geologiche del nostro territorio nazionale. È importante comprendere l’importanza e la necessità di “adattarsi” al cambiamento delle minacce, non tutte definibili come “minacce militari tradizionali”. Alcune minacce, non militari, come potrebbe essere proprio il caso di una pandemia, oggi difficilmente controllabile vista la velocità di movimento delle persone, sono in grado di causare effetti non prevedibili paragonabili, come osservato dal direttore generale dell’Oms, a quelli di una crisi militare e per cui occorre prepararsi ad affrontarle continuando a lavorare per migliorare le capacità d’interazione tra mondo civile e mondo militare.

Come ministro della Difesa, ho parlato di “Duplice uso sistemico”, non come qualcosa di nuovo, ma come un’area di miglioramento per le nostre Forze armate, un’area nella quale investire per “fare diventare sistemico ciò che oggi è ancora frammentario”, per aumentare la resilienza e la sicurezza complessiva nel Paese. Ciò non significa assolutamente “smilitarizzare le Forze armate”, come ho talvolta letto sui giornali quando è stato commentato questo mio approccio, ma, al contrario, elaborare una nuova vision di Difesa, secondo cui il concetto di Difesa — così come tradizionalmente inteso — dovrebbe inserirsi in quello più onnicomprensivo di sicurezza collettiva, da un lato irrobustendo la rete della resilienza collaborativa integrandovi le Forze armate, dall’altro mantenendo la loro prerogativa (e quindi capacità) di uso legittimo della forza militare.

“Sistematizzare” ciò che è frammentario è utile a fare in modo che ogni amministrazione contribuisca per la sua parte, liberando risorse che, nelle crisi, spesso le Forze armate anticipano togliendo temporaneamente risorse all’operatività militare. Per dirla in parole povere: se, ad esempio, degli elicotteri vengono utilizzati sempre più spesso in attività di supporto ad emergenze civili, come nel caso del controllo incendi o attività Sar (ricerca e soccorso) e se il ristoro delle somme spese giunge alle Forze armate a posteriori (situazione assolutamente comune), arriverà un momento in cui esse non saranno in grado di fare le manutenzioni con conseguenze anche sull’operatività militare. A tal fine, per esempio, si sarebbe potuto (si potrebbe ancora) modificare il codice della Protezione civile introducendo un Fondo utilizzabile in emergenza dalle Forze armate per questi fini. Ma questo è solo un esempio.

Quello che in realtà ancora manca al nostro Paese è una Strategia di sicurezza nazionale, che deve essere elaborata da tutti i ministeri e i principali attori istituzionali in materia di sicurezza (penso ai dipartimenti della Protezione Civile e alle Agenzie informazioni e sicurezza, ma anche ai più rilevanti attori privati che operano nel settore energetico, cibernetico, dell’industria difesa, delle telecomunicazioni, dei trasporti, ecc.), tutti insieme, sotto l’egida del presidente del Consiglio. Un consesso che prenda in considerazione tutte le possibili minacce e situazioni di rischio e individui obiettivi da raggiungere in maniera sistemica, da cui poi dovranno essere derivate le capacità e, conseguentemente, destinati gli investimenti.

È da questa Strategia di sicurezza nazionale, di cui la Difesa è una parte importante sia per la sua stessa funzione di “difesa” appunto, sia per il ruolo di supporto alla funzione “homeland security”, che devono poi essere derivate le varie strategie di settore, spaziando dalla dimensione economica a quella sanitaria, da quella finanziaria a quella energetica, interna o delle telecomunicazioni. Ed è sempre su questa “grand strategy” che dovranno poi basarsi anche i programmi di investimento nel settore della difesa e sicurezza. Attraverso questo processo diventerebbe anche più facile, e politicamente più accettabile, incrementare il budget della Difesa per rispondere agli impegni in ambito Nato.

Questo sarebbe soprattutto il caso dei nuovi domini operativi e delle nuove situazioni di rischio come la più volte richiamata cyber security, l’accesso allo Spazio, la sicurezza energetica (intesa come l’assicurazione della continuità dei flussi energetici) e delle infrastrutture critiche, talune componenti la minaccia ibrida, dove siamo ancora lontani dall’aver definito le nuove operazioni (militari?) e i legittimi combattenti, e dove le nostre Forze armate non hanno, a oggi, competenze dirette, se non in concorso secondo il portato normativo della cosiddetta quarta missione: «concorsi e compiti specifici in circostanze di pubblica calamità e in altri casi di straordinaria necessità e urgenza».

D’altra parte, anche in alcuni Paesi Nato comincia a prendere piede il concetto di “Sicurezza totale”. In tempi di aggressioni cyber e di altre minacce ibride, militari e civili devono lavorare insieme in uno sforzo unitario. È il caso della Norvegia, per esempio, che definisce come Difesa totale, lo sforzo complessivo e unitario, militare e civile durante una crisi o una guerra. Questa visione si basa su tre pilastri: mutuo supporto e cooperazione tra le Forze armate e la società civile; inter-dipendenza tra la prontezza emergenziale civile-militare e la gestione delle crisi; progressione continuativa tra lo stato di pace, crisi, guerra. Il ruolo delle Forze armate norvegesi nell’ambito della resilienza collaborativa, se si vuole per buona parte molto vicino a quello previsto dall’ordinamento nazionale per le nostre Forze armate, riguarda la salvaguardia della sicurezza dello Stato e il concorso alla salvaguardia della sicurezza sociale attraverso il supporto alle forze di polizia, alla protezione di siti e infrastrutture di importanza vitale, e alle altre autorità pubbliche.

Dal proprio canto, la società civile norvegese assicura il supporto alle Forze armate per ciò che riguarda beni, servizi e accesso alle infrastrutture che possono essere necessarie ai militari, come il sistema dei trasporti, i servizi sanitari, i servizi specifici, i rifornimenti di carburante, i servizi basici. Questo concetto è stato testato nel corso dell’esercitazione Nato Trident Juncture 2018 in Norvegia, alla quale hanno partecipato anche 1.500 militari italiani, il cui scenario prevedeva l’attacco armato al Paese al tempo odierno ex articolo 5 del Trattato di Washington. Anche in Svezia, Paese non Nato ma membro dell’Unione europea, si parla di Difesa totale ed è in atto uno sforzo importante per coordinare l’impegno militare e civile per raggiungere il massimo impatto in termini di difesa.

Quando la complessità aumenta, è impossibile migliorare l’approccio a qualsiasi problema, se si procede per settori separati; se invece si ragiona in termini di sistema, sotto la regia dell’organo a cui la nostra Costituzione affida il potere esecutivo, cioè il Consiglio dei ministri coordinato dal presidente del Consiglio, sarà possibile ottimizzare le risorse e raggiungere risultati che sono maggiori della semplice somma dei singoli risultati.

La caduta del governo Conte 1 ha bloccato il processo di riflessione interministeriale che avevo avviato e ospitato al ministero della Difesa, per poi proporre al presidente del Consiglio, al Consiglio superiore di Difesa e quindi al Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr) l’avvio del processo che doveva portare all’elaborazione dell’intesa Strategia. Sarebbe utile approfittare della crisi del Coronavirus per riprendere il tema e, al contempo, sperimentare nuove modalità di collaborazione tra tutti gli attori coinvolti nella lotta alla diffusione della crisi e nella mitigazione degli effetti.

Abbiamo ancora molto da fare attraverso un approccio sempre più sistemico. Nel caso specifico, ad esempio, dovremmo pensare di ricreare e attrezzare i centri strategici di quarantena chiusi negli anni 50, quando si credeva che il nostro Paese non sarebbe mai stato più interessato da emergenze sanitarie, strutture quanto mai necessarie, vista anche la collocazione e conformazione geografica della nostra Penisola.

Secondo tale prospettiva, l’auspicio è il mantenimento dello spirito dell’iniziativa “Ianus”, non foss’altro per rendere un numero crescente di ragazzi consapevoli di questi scenari, delle capacità delle Forze armate e dell’importanza di sostenere adeguatamente la Difesa e tutte le articolazioni dello Stato che, anche in piena emergenza Coronavirus, oggi ci permettono, con pensieri non troppo gravi, di continuare normalmente le nostre vite nelle nostre città, densamente popolate soprattutto nelle ore di punta. Solo con una consapevolezza condivisa, che coinvolga anche i più giovani, la politica potrà fare le scelte migliori nell’interesse comune, prevenendo, più che reagendo a, situazioni indesiderate per la sicurezza dell’Italia, assicurandoci un futuro migliore.


×

Iscriviti alla newsletter