Dopo cinque anni di guerra in Yemen, l’Ue e, soprattutto, l’Italia sembrano non avere carte da giocare nella risoluzione del conflitto. Eppure, ciò che accade nell’unica repubblica della Penisola Arabica ha numerose implicazioni per la sicurezza europea: stabilità del Golfo, sicurezza marittima ed energetica nello stretto del Bab el-Mandeb, contrabbando e immigrazione dal Corno d’Africa verso lo Yemen, jihadismo.
Di certo, le crisi in Libia e in Siria hanno monopolizzato l’agenda politica europea, nonché italiana, nella regione MENA, date le conseguenze dirette in termini di migranti e foreign fighters. Tuttavia, la politica estera dell’Italia non può permettersi di trascurare lo Yemen, come invece sta avvenendo dal 2015. Al di là degli storici legami fra Roma e Sanaa, l’Italia sta infatti incrementando gli scambi commerciali nonché gli investimenti nelle monarchie del Golfo e in Africa Orientale: aree che appartengono allo stesso spazio geopolitico dello Yemen.
La quasi totalità delle (pochissime) dichiarazioni pubbliche dei politici italiani sullo Yemen si focalizza sulla vendita di armi all’Arabia Saudita, che interviene militarmente nel paese. Lo stesso vale per gran parte dei media italiani. Il tema dell’export militare è importantissimo e merita di essere affrontato, senza tabù e con grande attenzione. Tuttavia, esso non può oscurare un dibattito più ampio e informato sul conflitto in Yemen, che offra strumenti di riflessione per poter poi incidere a livello diplomatico e nel post-conflict.
In primo luogo, le istituzioni e i governi europei devono smettere di considerare lo Yemen come un paese periferico. In un mondo altamente interdipendente, il Mar Rosso è già diventato la frontiera marittima meridionale del Mar Mediterraneo. Qui, gli huthi (gli insorti sciiti zaiditi del nord sostenuti dall’Iran), controllano la maggior parte della costa occidentale yemenita sul Mar Rosso, tenendo così sotto scacco la sicurezza del Golfo (con attacchi di missili e droni), nonché la libertà di navigazione (con attacchi asimmetrici a navi militari e commerciali).
Le istituzioni e i governi europei devono poi riconoscere l’estrema complessità di questa guerra: comprenderne la natura stratificata aiuterebbe a giocare un ruolo diplomatico davvero costruttivo. La politica yemenita è fatta di alleanze fluide e pragmatiche: gli interessi e le identità locali pesano di più delle appartenenze ideologico-confessionali. La guerra in corso è una lotta politico-tribale per il potere e le risorse: essa non può essere ridotta a uno scontro tra proxies di Arabia Saudita e Iran, né a una disputa settaria tra sciiti e sunniti, benché queste dimensioni facciano ormai parte dell’intreccio bellico.
Infine, le istituzioni e i governi europei devono separare il “Dossier Yemen” dal “Dossier Iran”, focalizzandosi così sulle dinamiche interne al conflitto. Cercare di isolare, per quanto possibile, il processo diplomatico yemenita dalle tensioni regionali fra Arabia Saudita e Iran (e dall’escalation Stati Uniti-Iran), significa frenare i calcoli geopolitici di Riyadh, Teheran e Abu Dhabi, mettendo al primo posto gli obiettivi politici degli yemeniti.
In Yemen, l’Ue è oggi il primo donatore di aiuti allo sviluppo, con particolare attenzione alle iniziative locali. Da subito, l’Unione ha scelto di integrare gli sforzi diplomatici dell’Inviato dell’Onu occupandosi -date anche le diverse sensibilità politiche dei membri- del lato umanitario della crisi. La chiusura delle ambasciate dell’Ue a Sanaa per motivi di sicurezza ha certamente limitato la diplomazia europea, divenuta “nomade fra Riyadh, Amman e Bruxelles.
Sul conflitto in Yemen, la Gran Bretagna è il paese europeo diplomaticamente più attivo, grazie anche a interessi storici e strategici nella Penisola Arabica. Ma nel 1926 l’Italia fu la prima a stabilire relazioni diplomatiche formali con lo Yemen (l’imamato del nord) e un italiano, Amedeo Guillet, fu dal 1954 il primo diplomatico europeo a risiedere in Yemen.
Più recentemente, la presidenza italiana del G8 propose e ottenne l’inserimento di un paragrafo sullo Yemen nella Dichiarazione dei ministri degli affari esteri (Trieste, 26 giugno 2009), sottolineando la necessità di rafforzare l’integrità territoriale e il controllo dei confini yemeniti contro pirateria e terrorismo (le missioni navali EU NAVFOR-Atalanta e NATO-Ocean Shield avevano appena preso avvio tra coste somale e Golfo di Aden). Quel paragrafo contribuì alla creazione dei “Friends of Yemen” nel 2010, gruppo di contatto co-presieduto da britannici e sauditi. Fu ancora l’Italia, durante il G8 del 2011 presieduto dalla Francia, a sostenere l’inclusione dello Yemen nella “Partnership di Deuville” per i paesi arabi in transizione.
È quindi singolare che dal 2015, nonostante la guerra, lo Yemen sia di fatto scomparso dal radar della diplomazia italiana. Tra l’altro, Roma partecipa dal 2019 alla missione civile di osservatori dell’Onu per il monitoraggio del cessate il fuoco a Hodeida (UNMHA), insieme a Germania, Danimarca, Portogallo, Norvegia, Spagna e Svezia.
Adesso, il contesto diplomatico è favorevole: l’Arabia Saudita è impegnata in colloqui informali con gli huthi in Oman e l’Onu ha appena ottenuto il sì al primo scambio ufficiale di prigionieri tra le parti. L’Ue dovrebbe così rilanciare il tema della riforma federale dello Yemen, ripartendo dalle conclusioni della Conferenza di Dialogo Nazionale yemenita (2013-14). Infatti, l’opzione federale è l’unica strada percorribile per preservare l’unità dello Yemen riconoscendone le differenze regionali. Lo schema federale deve essere multilivello: istituzionale (relazioni tra centro politico e periferie), economico (redistribuzione della rendita energetica e budget locale), di sicurezza (forze locali con compiti differenziati a seconda delle priorità regionali).
Tale approccio, che parte dalle comunità locali per riannodare un framework nazionale, integrerebbe davvero lo sforzo diplomatico dell’Onu, investendo sull’impegno dell’Ue in tema di progetti locali. Dopo Brexit, ecco che l’Italia, come partner neutrale per gli yemeniti e attore equilibrato tra Arabia Saudita e Iran, potrebbe allora assumere un’iniziativa: la Presidenza italiana del G20 può esserne il luogo e l’occasione. Tuttavia, lo sforzo politico dovrebbe partire fin d’ora, in coordinamento con l’attuale Presidenza saudita del G20, dato che Riyadh sta ormai cercando una via d’uscita diplomatica dalla guerra.
La vera domanda è se l’Unione europea e l’Italia vorranno raccogliere questa sfida, comprendendo che dallo Yemen passa il futuro (e già il presente) delle relazioni europee tra Golfo e Corno d’Africa.