L’On Orlando ex Ministro della giustizia ha dichiarato nel corso della trasmissione “Uno Mattina” che dall’emergenza Coronavirus usciremo grazie al fatto che la sanità italiana è pubblica. Bisogna però intendersi sul termine “pubblico”, che probabilmente il Ministro pensa nella accezione di “statale”: ha, infatti, aggiunto che in questi anni troppo si è investito nella sanità privata.
C’è qualcosa che non torna. E si avverte l’esigenza di fare chiarezza: che cosa si intende, di diritto e de facto, con il termine “pubblico”?
UN AIUTO CI VIENE DALL’OSSERVAZIONE DELLA REALTA’
Appare quasi una “fortuna” che il Coronavirus sia esploso in Lombardia (regione record per numero di contagi: 5.791 al 10 marzo), cioè «nella patria italiana di libera scelta, ricerca e innovazione, e dove il Piano messo a punto a Palazzo Lombardia questa settimana si fonda sul pilastro che regge il sistema sanitario da oltre un ventennio: un’alleanza tra strutture sanitarie private accreditate e ospedali pubblici che non costerà nulla ai cittadini», come scrive con chiarezza e dovizia di dati la giornalista Caterina Giojelli su “Tempi” (clicca qui per leggere).
1. Quindi la Lombarda ci racconta un’altra storia sull’immagine reale di “sanità pubblica”: con i suoi ospedali pubblici, il 40% dei quali gestiti dai privati, e i suoi 11 IRCCS privati, è un sistema di eccellenza che non ha bisogno di presentazioni, anzitutto perché rappresenta un’alleanza tra pubblico e privato fatta di medici, cure, terapie e strategie.
Questa è una verità con la quale ci si deve misurare. E, in tempi di Coronavirus, costituisce una fortuna.
In nostro soccorso giunge allora la scienza (la quale appariva desueta, ma ora è tornata di moda: d’un tratto si è capito che bisogna tornare a fidarsi della ricerca, avendo sperimentato che la semplificazione non solo discrimina, ma può essere così pericolosa da giungere a paralizzare una nazione).
E qui il diritto si è sprecato: fiumi di parole e leggi hanno chiarito… Ma per chi ha un pensiero ideologico non c’è dimostrazione scientifica che tenga. Tuttavia, noi lo ripetiamo:
2. Per “servizio pubblico” si intende qualsiasi attività che si concretizzi nella produzione di beni o servizi in funzione di un’utilità per la comunità locale, non solo in termini economici ma anche in termini di promozione sociale, purché risponda ad esigenze di utilità generale o ad essa destinata in quanto preordinata a soddisfare interessi collettivi” ( Consiglio di Stato n. 2605/2001).
DAL CAPITOLO SANITA’ AL CAPITOLO SCUOLA (anch’essa colpita dal Coronavirus).
Anche qui si pensa e si parla come se esistesse solo la scuola pubblica nell’accezione non corretta, bensì ideologica. Anche qui “pubblico” equivale a “statale”, e così le circolari, le note, le indicazioni dello Stato ignorano, anche in tempi di Coronavirus, le 12.000 scuole, i 900.000 allievi, gli oltre 100 mila dipendenti: più di due milioni di portatori di interesse che non contano nulla e “si arrangeranno”. Si muore così di “non considerazione”! Ma ancora una volta non è marginale precisare che “pubblico” (= “che svolge un servizio pubblico, cioè per tutti”) non coincide con “statale”: ai sensi della legge (62/2000), il Servizio Nazionale di Istruzione è formato da scuole pubbliche statali, gestite dallo Stato, e scuole pubbliche paritarie, gestite da Enti privati, Comuni e Province.
Le scuole non paritarie (le vere “private”) non sono scuole pubbliche, e quindi non fanno parte del SNI. È dunque in errore – e non dimostra cultura sufficiente per proporsi ai cittadini – chi scrive o parla di “scuola pubblica” riferendosi unicamente alla “scuola pubblica statale”.
Continuare a confondere “pubblico” e “statale” è un errore sui fondamentali che non può essere tollerato, soprattutto in tempi di Coronavirus, se produce così tanta discriminazione a danno delle fasce più deboli di genitori, allievi e docenti.
Si avverte la necessità di colmare questo gap di conoscenza (in un tempo che ha rispolverato il valore della scienza, appare ancor più ridondante l’ignoranza), tanto più se si considera il fatto che il Ministro dell’Istruzione dimissionario e le varie nazioni continuano a guardare al modello finlandese come ad una eccellenza mondiale, soprattutto perché “senza scuole private”, come è stato ricordato nel corso dell’interessante servizio di “Presa Diretta”, recentemente andato in onda (clicca qui).
Ma siamo sicuri di aver capito cosa si intende con questa affermazione?
LA SCUOLA IN FINLANDIA
La realtà è che in Finlandia i genitori possono scegliere la scuola per l’educazione dei loro figli in totale libertà: le scuole statali e quelle non statali sono entrambe a carico dello Stato, con gli stessi criteri di riparto. I genitori che iscrivono i propri figli in una scuola non governativa non pagano alcuna retta scolastica, avendo già pagato le tasse, come tutti nel mondo civile. Il 40% di tutte le istituzioni di formazione professionale appartiene al settore privato e, a regolare il “permesso di educazione” delle scuole non governative, è la legge sull’educazione (Legge 21.8.1998 n. 628). Le scuole non governative devono avere caratteristiche e standard professionali ed educativi stabiliti per legge. Il servizio da loro svolto, e finanziato dal governo centrale e/o locale, deve essere erogato «senza fini di lucro». (clicca qui)
Non è importante chi gestisce la scuola (lo Stato o altri soggetti sociali): diventa invece decisiva la proposta educativa offerta. In questo contesto, le scuole non governative sono parte attiva di un unico sistema scolastico, assicurando un dinamismo e una competitività che concorrono al successo dell’impianto educativo in Finlandia.
LA SCUOLA IN ITALIA
Che cosa può insegnarci il modello finlandese? Moltissimo! Fa bene, dunque, l’Italia a guardare alla Finlandia e al suo sistema scolastico autenticamente pubblico.
In Italia una struttura come quella finlandese diventa invece “scuola privata”, perché si deve pagare, o “scuola dipendente” (nel caso della statale), perché non ha autonomia. Ecco spiegato, in una parola, il complesso meccanismo del fallimento del sistema scolastico italiano!
Si tratta di un sistema classista, regionalista, discriminatorio, costoso e “colabrodo”, incentrato sulla “dipendenza”. Infatti:
- dipende la scuola statale dalle logiche burocratiche di uno stato accentratore;
- dipende la famiglia dal ricatto economico;
- dipende il docente da un perenne precariato.
La libertà e la responsabilità possono innescare il meccanismo della fiducia, che è sempre un guadagno; ma in Italia la fiducia viene sacrificata sull’altare della dipendenza… E così, confondendo “pubblico” con “statale”, si guarda al privato come ad un danno inevitabile che va arginato.
IL CORONAVIRUS HA ACCELLERATO UN PROCESSO
Anche in tema di Coronavirus, c’è chi pensa che se ne esca con un metodo dittatoriale e chi crede che se ne esca con la conoscenza che nutre le libertà e muove le responsabilità.
Pertanto, si guardi al modello sanità che ci sta salvando come ad un’esperienza che può salvare, oltre ai corpi, anche le menti obnubilate da un monopolio educativo che sta facendo più danni di un regime.
Un monopolio che spegne le idee e innesca la guerra fra poveri. È notizia di questi giorni: i genitori, che già pagano le tasse e la retta della scuola, trovandosi ora a dover pagare anche la baby–sitter, pensano di non pagare la retta: e la scuola paritaria, già indebitatasi, cosa farà?… Come dare torto alla famiglia che, già fiaccata dalla crisi e dalla doppia imposizione, non può reggerne una terza? Come dare torto alla scuola paritaria dei poveri (e basta con la teoria della “scuola dei ricchi per i ricchi”: stiamo parlando di altro)? L’epilogo – tragico – sarà questo: il Coronavirus non avrà fatto altro che accelerare la morte del pluralismo?
Tutt’altro! Piuttosto la crisi del coronavirus che – smaschera i limiti – riporta all’attenzione pubblica, delle famiglie, dei docenti, dei gestori, dei sindacati, delle Istituzioni, dei politici i termini della questione e ha accelerato un altro processo. Ha, cioè, posto il Governo Italiano di fronte ad un bivio, delle due l’una:
1. Riconoscere concretamente la titolarità, in ambito educativo e formativo, della persona e della famiglia. Tale titolarità si esercita attraverso una “libertà di scelta educativa” che va garantita a tutti, superando gli attuali ostacoli economici e sociali che ne impediscono di fatto l’esercizio ai meno abbienti. Si introduca costo standard di sostenibilità (declinabile in convenzioni, detrazioni, buono scuola, voucher, ecc.) che costituisce, una “quota capitaria” spettante all’alunno, che lo assegna poi alla scuola prescelta.
Oppure
2. Dichiarare che è compito dello Stato educare i figli e che solo il ricco può permettersi il lusso della scelta; il povero si deve accontentare. Quindi si sposa apertis verbis un sistema scolastico classista, regionalista, discriminatorio… iniquo; quindi non si promettano posti di lavoro o un sistema di qualità nella Scuola, perché senza autonomia, parità e libertà tale promessa è un inganno.
Da qui non si scappa, pena l’inganno conclamato.