Sono ancora pochi i contagi da coronavirus in Africa. Ma ci sono. E nonostante non si conoscano ancora con certezze le ragioni dei numeri bassi, la preoccupazione sale. Tanto da fare lanciare un appello ai vescovi africani del Secam, il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar, riunitosi nei giorni scorsi a Nairobi, in Kenya, che si sono detti inquietati e preoccupati per la diffusione dell’epidemia nel continente.
“Siamo vicini a coloro che sono stati colpiti da questa epidemia sconosciuta e preghiamo che si possa presto trovare un trattamento efficace ed economico per farvi fronte”, hanno affermato i religiosi nel loro messaggio, diffuso dall’Osservatore Romano. “Nel frattempo, raccomandiamo fortemente alle nostre persone di adottare il più alto livello di misure preventive per frenare la diffusione della malattia”, e “i fedeli a seguire meticolosamente le istruzioni fornite dalle autorità civili ed ecclesiastiche in merito al virus”, hanno specificato.
IL PROBLEMA SANITARIO
La prima vittima infatti, un turista tedesco in Egitto, ha fatto ricredere molti scienziati sull’idea che il virus a certe temperature potrebbe scomparire. Ora l’idea è che possa resistere dagli 0 ai 40 gradi, ovvero le temperature in cui si vive comunemente in Africa, dall’altopiano abissino, dove di notte il calore scende di parecchio, ai deserti in cui il clima è torrido. “Il vero problema in Africa è la struttura sanitaria, che è molto fragile e abbiamo visto come l’impatto del coronavirus abbia messo in difficoltà una sanità organizzata come la Lombardia. Figuriamoci in paesi molto poveri, con ospedali già sovraffollati o comunque con grandi difficoltà, e una rete poco capillare di ambulatori e presidi medici sul territorio”, spiega a Formiche.net Enrico Casale, giornalista della rivista dei Padri Bianchi, i Missionari D’Africa, “Africa“.
Rete sanitaria africana che, di fronte a un attacco epidemico di questo tipo, può certamente vacillare. Come è stato per Ebola. Nella Repubblica Democratica del Congo è stata infatti appena dichiarata la fine dell’epidemia di Ebolavirus, dopo circa un anno e mezzo dal suo esordio. A cui si aggiungono la difficoltà di un territorio in guerra, dove le milizie che si combattono l’un l’altra impediscono aiuti e sostegni alla popolazione. “C’è stata una doppia complicazione, e non è l’unico Paese dove ci sono difficoltà di questo tipo”, spiega Casale. In Nigeria il virus è già arrivato, portato da un tecnico italiano, ma si sono registrati casi in molti paesi, dopo il primo in Egitto. Algeria, Senegal, Sudafrica. Inizia ad esserci una diffusione del virus, al momento ancora a macchia di leopardo, ma che di fatto interessa tutto il continente. Che ha permesso all’Oms di dichiarare lo stato di pandemia.
COME I PAESI AFRICANI SI PREPARANO ALLA PANDEMIA
Poi c’è la questione dei tamponi. Fino a poco tempo fa, gli unici due centri in grado di individuare il virus attraverso i tamponi erano Senegal e Sudafrica. La rivista Lancet nei giorni scorsi spiegava che il 74 per cento dei Paesi africani dispone già di un piano di preparazione alla pandemia ormai acclaratasi. Ma che, tuttavia, la maggior parte di questi programmi è nella pratica obsoleta, quindi considerata inadeguata ad affrontare il problema. Ora però l’Oms ha fornito ad alcuni Paesi africani risorse e strumentazione utili all’individuazione e alla gestione del coronavirus. Così oggi 37 Paesi dell’Africa si dichiarano attrezzati per l’emergenza diffusa su scala globale. “Questo ha permesso di estendere la rete di laboratori in grado di rilevare il virus”, commenta Casale.
Ma l’apprensione va salendo giorno dopo giorno, il che ha portato a chiudere i voli di diversi Paesi, come il Kenya, con l’Italia o con la Cina. “C’è un’apprensione, è indubbio, anche se il mondo africano è abituato a epidemie di questo tipo”, spiega Casale. “Pensiamo, oltre a Ebola, all’Aids, o al fatto che in certe zone si conviva ancora con la malaria. C’è l’abitudine a una situazione sanitaria precaria. Ma l’apprensione c’è principalmente anche perché il virus non si conosce ancora”.
LE REAZIONI POLITICHE E I RISCHI ECONOMICI
La politica, finora, ha dato le stesse risposte che si sono viste in Italia i primi tempi, e che ancora sono il modus operandi di molti governi occidentali. “In Nigeria il presidente Muhammadu Buhari ha cercato di tranquillizzare la popolazione, e lo stesso è accaduto in Algeria, ma sono consci che le loro strutture sanitarie non sarebbero all’altezza”. Anche i rischi economici, in un momento in cui si parla di recessione mondiale, spaventano e non poco. L’Overseas Development Institute (Odi) sostiene infatti che l’Africa subsahariana rischia di bruciare, soltanto per via del calo dei consumi dalla Cina, una cifra pari a 4 miliardi di dollari. Cifre ridotte, rispetto ai 350 miliardi di dollari che verrebbero a perdersi a livello planetario, nel caso la recessione globale diventi realtà. Ma cifre rilevanti per la condizione, già difficoltosa, in cui versa attualmente l’Africa.
“Economicamente, è certo che l’Africa potrebbe risentirne, in quanto è un bacino da cui tutto il pianeta trae le risorse naturali. Pensiamo al petrolio ma anche alla bauxite o al coltan. È chiaro che nel momento in cui le grandi economie rallentano, rallenta la domanda di questi prodotti”. L’Africa infatti non ha un’industria di trasformazione, esporta materie prime e importa manufatti, e quindi risentirebbe pesantemente di una recessione globale. “È già capitato negli anni passati”, conclude Casale. “Ma il grande rischio è il debito estero. Nel momento in cui si vendono meno materie, per mantenersi gli Stati africani dovrebbero accumulare debito estero. Che poi è complicato restituire. Questo porterebbe, di conseguenza, la situazione ad aggravarsi ancora di più in futuro”.