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Coronavirus, ecco come Usa e Cina possono lavorare insieme (Harvard c’è)

Harvard University ha presentato nelle scorse settimane il programma congiunto della Harvard Medical School (Hms) e del Guangzhou Institute for Respiratory Health sulla pandemia da Covid-19 .

Il programma, finanziato da China Evergrande Group con 115 milioni di dollari, è coordinato dal direttore della Hms George Q. Daley e da Zhong Nanshan, capo della Task force cinese su Covid-19 e direttore generale del China State Key Laboratory of Respiratory Diseases.

Al programma partecipa il Center for Communicable Disease Dynamics della School of Public Health di Harvard Chan, diretto da Marc Lipsitch, epidemiologo di fama mondiale.

Lipsitch e Zhong hanno messo in evidenza il ruolo strategico del lavoro comune sia per affrontare l’emergenza con misure adeguate anche sulla base dell’esperienza di Wuhan, sia per organizzare in prospettiva un sistema globale efficace di prevenzione e monitoraggio degli eventi epidemici futuri.

Mentre il Rettore di Harvard Alan M. Garber ha voluto ricordare che la partnership risponde all’esigenza di affrontare la pandemia con misure globali guidate dalla scienza.

Il programma lanciato ad Harvard è una notizia che offre alcuni spunti di riflessione.

Ricordo che lo scorso 8 novembre 2019 il ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato con il suo collega cinese il piano della cooperazione sanitaria Italia-Cina 2019-2021, che prevede una linea di lavoro su “Prevenzione, diagnosi, trattamento delle malattie infettive e risposta ad emergenze di salute pubblica”. Forse, invece di sospendere i voli diretti con la Cina, il 30 gennaio scorso l’Italia avrebbe potuto avviare, in attuazione dell’accordo bilaterale, un programma simile a quello sottoscritto 20 giorni dopo ad Harvard, anche tenendo conto che – come in tutte le epidemie – lo scambio delle informazioni e delle lezioni apprese dall’esperienza è un supporto prezioso.

L’arrivo in Italia del team di medici cinesi è una buona notizia, ma non sarebbe male se il valore aggiunto della elevata qualificazione degli ospedali e dei centri di ricerca italiani emerso “sul campo” in queste settimane potesse essere valorizzato nell’ambito del progetto lanciato ad Harvard.

Il programma di Harvard è anche un segnale molto chiaro per tutti i “fan” della de-globalizzazione, che hanno preso spunto dall’epidemia di Wuhan per sostenere l’esigenza di mettere in quarantena la Cina.

A questo proposito suggerisco due considerazioni.

– Covid-19 è una sfida globale che richiede risposte globali, possibili solo attraverso una solida cooperazione internazionale. Come hanno ricordato sia Zhong Nashan che Marc Lipsitch, sarà necessario lavorare per sviluppare nuovi metodi per analizzare meglio i dati e individuare l’origine della pandemia, ma nello stesso tempo è urgente lavorare insieme per individuare le migliori soluzioni che consentano di affrontare la pandemia a livello globale. Il programma di Harvard è una risposta concreta in questa direzione.

– La previsione, o meglio la speranza dei “deglobalizzatori”, che coronavirus avrebbe accelerato il trasferimento dalla Cina di molte imprese europee ed Usa con il contestuale “economic decoupling” non appare oggi così attuale se si considera che la Cina sembra uscire dalla fase acuta della crisi del coronavirus che invece sta aggredendo l’economia europea e degli Usa. Come ha ricordato il direttore del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva alla riunione dei ministri dell’Economia del G20 il 19 febbraio scorso, “Covid-19 è un duro promemoria delle nostre interconnessioni e della necessità di lavorare insieme”.

I fatti suggeriscono che va ripreso il percorso della cooperazione a livello globale, dedicando le energie a cercare di “ricostruire i ponti” piuttosto che ad esaltare le differenze.



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