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Così il Congresso Usa si schiera contro la Cina. E i Dem sono in prima fila

C’è un fatto nuovo nella politica americana. Mentre il Paese è terrorizzato dal dilagare della pandemia ed è in corso la campagna presidenziale forse più drammatica nella storia recente degli Stati Uniti, il Congresso ha deciso di mettere da parte le divisioni sulla risposta politica al coronavirus per trovare una posizione bipartisan con cui stigmatizzare le responsabilità cinese nel dilagare del contagio. È novità, infatti, l’impegno dei democratici, che in passato – pur non sottovalutando la minaccia da Pechino – avevano preso le distanze dal presidente Donald Trump sulla guerra commerciale e sulla formula definita razzista del “virus cinese”.

Se i repubblicani hanno messo nel mirino Pechino già da tempo, i democratici sono sempre apparsi più concentrati sulla Russia: vuoi per il Russiagate e la sconfitta di Hillary Clinton, vuoi per sensibilità diverse sull’approccio internazionale, la sinistra statunitense ha portato avanti una politica più morbida verso la Cina. Ma nelle ultime ore il repubblicano Jim Banks e il democratico Seth Moulton hanno presentato al Congresso una risoluzione bipartisan per condannare il governo cinese per i “numerosi e gravi errori nelle prime fasi” dell’epidemia di coronavirus. Ne emerge un quadro di menzogne, cattiva gestione, censura (soprattutto sui medici che già a dicembre avevano avvertito del nuovo virus), repressione delle minoranze e rifiuto di cooperare con le organizzazioni sanitarie internazionali che hanno causato una pandemia da quasi 400.000 di contagi e oltre 17.000 morti.

Questa posizione si collega all’attività di analisi che ormai la maggior parte degli esperti di sicurezza nazionale sta promuovendo. La preoccupazione per la Cina, infatti, ormai non è più caso da falchi repubblicani. Anzi. A testimoniare come sia diventata tema bipartisan – anche su spinta cinese – c’è il caso di Laura Rosenberger, direttore dell’Alliance for Securing Democracy e senior fellow del German Marshall Fund, finita nel mirino dei sostenitori di Pechino per alcuni contributi sulla guerra di disinformazione che si sta combattendo sul fronte coronavirus. In particolare ad attaccarla è stato Chen Weihua, corrispondente da Bruxelles del giornale di partito China Daily. Su Twitter Rosenberg ha scritto: “Simpatico. Un propagandista del Partito comunista cinese sta accusando me, ex consigliere per la politica estera di Hillary Clinton, di prendere ordini dall’amministratore Trump. Assurdo”.

Ma non è sola. Basta sfogliare le pagine di un rapporto di Matt Schrader per l’Alliance for Securing Democracy sulla propaganda cinese in Europa: oggetto di studio anche l’attività dell’ambasciata cinese a Roma e le teorie complottistiche sostenute da alcuni funzionari di alto livello del ministro degli Esteri di Pechino.

Anche Edward Lucas, esperto britannico di sicurezza, animatore del Center for European Policy Analysis (Cepa) e da sempre concentrato sulle attività russe, ha dedicato diversi articoli al caso cinese. L’ultimo è intitolato Inconvenient truths e analizza le perdite, in termini di vite e costi, dovute ai ritardi cinesi nella risposta al coronavirus. Possiamo citare ancora il rapporto (qui analizzato da Formiche.net)  del Cyber Policy Center del Freeman Spogli Institute for International Studies alla Stanford University (un’istituzione non troppo vicina al mondo trumpiano) che spiega le interferenze cinesi attraverso i suoi media in lingua inglese.

Ormai la Cina è un tema bipartisan a Washington e la risoluzione sancisce questa novità. A dimostrazione del fatto che sbaglia chi crede che, nel caso di vittoria a novembre del democratico Joe Biden, gli Stati Uniti possano ammorbidire le loro posizioni sulla Cina.

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