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Ecco come la tecnologia combatte il coronavirus in Africa. Parla Micucci (Amref)

Il coronavirus è sbarcato in Africa, come in tutto il mondo. In Kenya il ministero della Salute ha lanciato il progetto Leap, messo a punto dall’associazione Amref in collaborazione con l’Oms, una piattaforma per smartphone che aiuterà la divulgazione di informazioni sanitarie allo scopo di contrastare la propagazione di malattie infettive come il Covid-19. Formiche.net ne ha parlato con Guglielmo Micucci, direttore di Amref Health Africa-Italia.

Voi che notizie avete, qual è la situazione al momento e quali sono i rischi per il continente africano?

I casi sono in crescita, il virus si sta iniziando a diffondere tra i vari Paesi e la difficoltà di tracciare i casi, in un continente dove i sistemi sanitari sono fragili e c’è maggiore permeabilità delle frontiere, fa pensare che i numeri possano essere molto superiori a quelli dichiarati. La diffusione è ancora non molto estesa, ma come per tutto il mondo anche l’Africa non sarà immune dalla crescita del numero di contagiati, e quindi dalla necessità di una maggiore gestione. Anche perché cominceranno probabilmente anche i decessi.

Che provvedimenti si stanno prendendo?

Sono già state messe in campo tutta una serie di piccole azioni preventive. Il problema di fondo è che quando si andrà a diffondere maggiormente il virus, come quello che stiamo vivendo in Italia in cui si vede l’appesantimento di un sistema sanitario che è tra i migliori al mondo, in Africa diventerà un vero problema, se pensiamo che nel continente opera solo il 3% del personale sanitario globale. Come molti altri, noi abbiamo interrotto tutti gli spostamenti tra Europa e Africa, per non essere vettori di contagio.

Come mai i numeri sono ancora così bassi? La fotografia è reale?

I numeri probabilmente sono più elevati di quello che è dichiarato, non per volontà di tenerli nascosti ma per difficoltà di monitoraggio, e penso alla possibilità di fare tamponi o a tutti quei casi dove “normalmente” avvengono già decessi per infezioni da via respiratorie. La polmonite è già un grosso problema in Africa, è una delle maggiori cause di mortalità assieme all’Hiv. Quindi molti decessi vengono identificati con altro, e non avremo altre informazioni fino a quando non si realizzerà un monitoraggio capillare specifico.

Ci parla della piattaforma Leap, che avete da poco implementato con il governo kenyota assieme all’Oms per contrastare l’espansione del coronavirus?

È un programma che abbiamo messo in piedi già da qualche anno, si tratta di una piattaforma che utilizziamo per formare e informare gli operatori sanitari. In Kenya con questa piattaforma raggiungiamo 50mila persone, tutte social workers o figure intermedie che hanno contatto diretto con il sistema sanitario. Qualche settimana fa il ministero della Salute ci ha chiesto di attivare la piattaforma per iniziare un processo preventivo, che nelle ultime ore è stata implementata ma ancora solo per le funzioni push. Già lo facevamo per le altre problematiche, così lo abbiamo potenziato sul tema del coronavirus. La fortuna è che la piattaforma è già in piedi e permette di sopperire al contatto fisico, ovvero quello che attualmente è il più grande ostacolo, caratteristica che in questo momento potrebbe risultare vitale. In più funge anche da aggregatore numerico, e può informare nell’immediato sulla comparsa di nuovi casi.

Questo tipo di strumento potrebbe essere utile anche per l’Europa?

Pensiamo che vada esteso oltre il Kenya, e stiamo già parlando con alcuni partner per farlo, perché in queste emergenze può dare un valore aggiunto. L’e-learnig già si sta sperimentando nelle scuole, e queste tecnologie potrebbero certamente aiutare anche i sistemi sanitari.

In linea generale, i governi africani hanno consapevolezza del problema?

In Kenya, Etiopia, Senegal, o in Mozambico, ci sono diverse intensità. Il Kenya è particolarmente attento per le relazioni sviluppate negli anni con la Cina, con la quale i contatti sono stati frequenti fino a poche settimane fa, in termini di relazioni commerciali e di scambi tra persone. E anche nel Nord Africa inizia a esserci attenzione, dopo la prima morte in Egitto.

Il piano dell’Oms sta aiutando i Paesi africani?

La dichiarazione della pandemia non è solo un tema di comunicazione, ma scattano in automatico tutta una serie di protocolli e di procedure nei Paesi che necessitano di aiuti sanitari. In Nigeria si sta facendo un processo di sensibilizzazione importante, nonostante le difficoltà, e si stanno attivando tutta una serie di protocolli interni per aumentare informazione e sensibilizzazione. Uno dei problemi è che molti Paesi hanno una serie di protocolli già attivi da una decina di anni e che non sono stati aggiornati. C’è tutto un lavoro di ri-aggiornamento da fare, e quando risulterà necessario il potenziamento ad esempio delle rianimazioni, ci si accorgerà che in alcuni Paesi questa semplicemente non esiste. Quindi, anche se il piano è proceduralizzato, non c’è la capacità operativa per implementarlo. Il punto centrale perciò, purtoppo, è lo scollamento tra ciò che è previsto e ciò che è realmente fattibile.


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