Il contagio da coronavirus disarma – economicamente – il presidente candidato Donald Trump: ieri, venerdì 20 marzo, WallStreet ha chiuso al di sotto dei livelli del 20 gennaio 2017, il giorno dell’insediamento del magnate alla Casa Bianca. In poche settimane, l’indice Dow Jones ha così cancellato il ‘Trump bump’, cioè l’effetto positivo che Trump poteva vantare su borse e mercati, perdendo oltre un terzo, circa il 35%, del suo valore, l’equivalente di migliaia di miliardi.
Le previsioni economiche per i prossimi mesi e per l’intero anno non sono certo positive, malgrado lo sforzo dell’Amministrazione e del Congresso di calmierare gli effetti del contagio con interventi diretti e fiscali a vantaggio dei settori e dei lavoratori danneggiati.
E in assenza di terapie, come ovunque nel mondo, e di misure di contenimento coerenti ed efficaci, il contagio nell’Unione continua a diffondersi: 17500 persone positive, 225 decessi a tutto ieri, vari Stati in lockdown, un elemento dello staff del vice-presidente Mike Pence, ‘zar’ del coronavirus, positivo, anche se la persona non avrebbe avuto stretti contatti né con Pence né con Trump. Sono già numerosi i membri dell’Amministrazione auto-postisi quarantena perché preoccupati d’essere stati esposti al virus.
Sono circa 75 milioni gli americani a cui è stato ordinato di restare a casa dai governatori dei loro Stati, compresi quello di New York e la California, due dei tre più popolosi. La Casa Bianca, proseguendo nella serie di provvedimenti a macchia di leopardo, ha annunciato la chiusura questo fine settimana delle frontiere con il Canada e con il Messico a tutto il traffico non essenziale e il Dipartimento di Stato ha emanato una messa in guardia contro i viaggi all’estero di Livello 4, il più elevato. I cittadini americani “devono organizzarsi per un immediato rientro”, a meno che non intendano restare all’estero per un lungo periodo.
In questo contesto, la campagna è ferma: Trump, ormai matematicamente acquisita la nomination, s’occupa a modo suo del coronavirus; i due rivali democratici Joe Biden e Bernie Sanders, che non hanno impegni di primarie per tutta la prossima settimana, fino al voto di domenica in Portorico, che pesa poco, cancellano eventi pubblici – e Sanders medita sul da farsi -.
Il New York Times ne approfitta per fare i conti in tasca a Michael Bloomberg, che – si apprende – ha speso molto di più di quanto finora stimato nella sua corsa alla nomination democratica durata solo cento giorni: oltre 900 milioni di dollari, invece di 560, ci cui oltre 500 in spot televisivi.
Il NyTimes si basa sull’ultima dichiarazione sottoposta alla commissione elettorale federale: è la somma più alta mai spesa nella storia americana da un candidato autofinanziatosi. Il miliardario ha ottenuto 64 delegati – uno ogni 15 milioni spesi – e non s’è imposto in nessun Stato (ha vinto solo nelle Isole Samoa).
L’ex sindaco di New York non ha, però, finito di spendere: tenendo fede all’impegno di contribuire alla sconfitta di Trump, ha trasferito al partito democratico 18 milioni di dollari per la campagna verso le elezioni di novembre per la Casa Bianca e il Congresso e mette a disposizione del partito parecchi degli uffici che aveva aperto nell’Unione per la sua corsa.