La crisi del coronavirus si sta trasformando, e da questione prettamente sanitaria è ora divenuta anche una questione geopolitica di portata globale. La Cina, centro di irradiazione di quella che l’Oms ha ufficialmente definito una pandemia l’11 Marzo, sta ora usando il know-how acquisito in questi mesi, il fatto che i contagi siano diminuiti grazie alle misure draconiane messe in atto per riparare ai tanti errori iniziali, e le sue risorse finanziarie, mediche e di propaganda per trasformare la narrativa. Questo attivismo riporterà – anzi, già sta riportando – ad una crescita della tensione con gli Stati Uniti, che vedono nella Cina il principale rivale sistemico. L’Italia è al centro di questa competizione, ed è uno dei Paesi in cui Pechino sta provando ad esercitare il suo soft power. Le implicazioni politiche di questa crisi in una conversazione con Dario Cristiani, Iai/Gmf Fellow al German Marshall Fund a Washington Dc.
Nei giorni scorsi, l’Oms ha ufficialmente dichiarato che il Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia e che l’Europa ne è il nuovo epicentro. Tanti si stanno focalizzando, chiaramente, sulle dimensioni più propriamente sanitarie di tale emergenza, ma ci sono anche dei risvolti di natura geopolitica che stanno emergendo. Che ne pensa?
Certamente, c’è una dimensione geopolitica di tale crisi che si fa sempre più marcata. Un’emergenza di tale scala, proporzioni e impatto – geografico e mediatico – ha chiaramente messo a nudo le fragilità – alcune strutturali, alcune contingenti – di tutte le società e le comunità colpite, a vari livelli e con modalità diverse. Sebbene siano anni che l’Oms provi a mettere in guardia tutti dal rischio pandemia, la crisi attuale può caratterizzarsi come una crisi causata da quegli eventi conosciuti nella disciplina dell’analisi previsionale come un evento “black swan”: il cigno nero, raro ma che esiste. Sono quegli eventi che sfuggono alle logiche statistiche, unici e non ricorrenti ma il cui impatto è devastante e che, in molti casi, possono creare fratture cosi profonde da trasformarsi in momenti costitutivi di un nuovo ordine. Un paese e una cultura con un grande, profondo e radicato senso della storia come quella cinese questo passaggio lo ha compreso, e sta cercando di trasformare il coronavirus da crisi causata dalla propria negligenza voluta – negligenza dettata dalla necessità politica di coprire tale problema nei suoi stadi iniziali – ad opportunità per accelerare il passaggio a questo nuovo ordine, sino-centrico – che è poi la visione alla base della nascita del progetto della One Belt One Road Initiative (Bri): una sorta di ritorno al mondo pre-centralità Europea, quando la Cina era di gran lunga il paese centrale dell’economia-mondo dell’epoca (l’impero di mezzo aveva una quota di Pil del mondo conosciuto del 30% nel 1400, ben superiore a qualsiasi altro attore di quell’ambito).
Come la Cina sta provando a trasformare una crisi sanitaria globale in un’opportunità geopolitica?
Dal punto di vista cinese, in questo tentativo di trasformare una debolezza in forza è centrale il focus sull’efficacia con la quale la Cina ha gestito l’emergenza una volta scoppiata: efficacia evidente, certamente, e di cui bisogna rallegrarsi perché ha aiutato a salvare vite umane. Da un punto di vista europeo e transatlantico, cioè di culture che pongono l’individuo e il suo benessere al centro della propria visione del mondo, il salvare vite umane è quindi chiaramente fondamentale: ogni successo in questo ambito va salutato con felicità. Ma c’è un però.
Prego?
Altresì fondamentale, in queste culture, è la necessità di garantire le libertà dell’individuo, viste non come gentile concessione di una forza sovrana superiore, ma bensì come parte imprescindibile del benessere dell’individuo di cui si accennava prima. In questo senso, il modo in cui la Cina ha gestito questa emergenza dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme: misure draconiane, con pesanti limitazioni della libertà personale e uso della tecnologia finalizzata al controllo sociale. E qui non parliamo di eccezioni una tantum, ma di una prassi di controllo sociale invasivo consolidata e in ulteriore consolidamento, rafforzata dalla sua crescente tecnologizzazione, e che in questa crisi ha trovato solo un modo nuovo di essere utilizzato. Inoltre, e bisogna sempre ricordarlo, tale mancanza di libertà è il motivo per cui questa crisi è scoppiata: basta vedere la dolorosa storia del coraggioso dottore Li Wenliang – sorta di Legasov contemporaneo – per rendersi conto di questo passaggio che in troppi, o per convenienza o per negligenza, dimenticano.
Nelle risposte transatlantiche a questa crisi, questo elemento è mancato. Certo, ha ridotto la velocità di risposta ma è uno dei prezzi da pagare, ed è un prezzo che va pagato. L’esigenza di trovare un equilibrio – certamente dinamico, ma sempre un bilanciamento – tra esigenze di sicurezza ed esigenze di libertà è un elemento imprescindibile, ontologico, delle nostre società e cosi deve rimanere. Qualsiasi cedimento a questo principio rischia di aprire crepe non più rimarginabili. Certo, nel breve periodo può creare debolezze, criticità: il caso nostro, dell’Italia, lo dimostra. L’approccio ha dovuto essere necessariamente incrementale e progressivo. Molti – col senno di poi – dicono che si sarebbe potuto essere immediatamente più duri, e certamente da un punto di vista prettamente scientifico o scevro da considerazioni e necessità politiche hanno ragione. Però lo fanno senza tenere conto del fatto che – nei sistemi liberal democratici – vi sono processi e interessi individuali, amministrativi, settoriali e geografici da far combaciare. La sintesi è difficile, è stata difficile, è necessita di tempo e pazienza. Sotto una minaccia di tale portata, lo è ancora di più. Inoltre, misure di limitazione della libertà individuale, come quelle in atto in Italia, sono veramente difficili da implementare in una società in cui la libertà è un dato acquisito: questa crisi ci insegna che rinunciare alle libertà alle quali siamo abiutati, anche solo per poche settimane e per aiutare tutti a non mettere il settore della sanità e i suoi lavoratori sotto una pressione enorme, è pesante. Immaginate se queste restrizioni fossero parte della nostra normalità.
Negli Stati Uniti, il Presidente Trump ha annunciato lo stato d’emergenza. Queste logiche valgono anche per l’altro lato dell’Atlantico? E perché si è mosso ora, dopo che all’inizio si era mostrato restio?
Questa è anche la sintesi che si è raggiunta negli Stati Uniti: ci sono arrivati tardi, certo, e all’inizio il problema è stato sottovalutato e questo probabilmente avrà un costo. Dopo settimane di incertezze, e con una presa di coscienza tardiva che non ha aiutato la gestione dell’emergenza iniziale in posti come lo stato di Washington, la California e New York. Con i modi classici, bruschi e spesso difficili da comprendere per noi europei del Presidente Trump, certamente. Con una serie di errori di comunicazione, il blocco selettivo dei voli dai paesi europei ad esempio, poi ieri allargato a UK e Irlanda, clamoroso autogol comunicativo nei giorni in cui la Cina annunciava in pompa magna la “donazione” – che poi donazione non è, nei fatti – all’Italia di materiale biomedico. La Cina sta inviando materiale biomedico in giro per il mondo, non solo in Italia. Ieri il Presidente tunisino Kais Saied ha pubblicamente ringraziato i cinesi per un invio che avverrà, e ad esempio in Tunisia – paese con una cronica crisi di accesso ai farmaci – i cinesi fanno questo da anni. La Cina sta usando questa crisi come opportunità di proiezioni del suo soft power, un tipo di approccio su cui lavora da anni. Credo che, insieme alla chiara esistenza di focolai dell’epidemia nel paese, anche questo aspetto abbia giocato un ruolo nel provocare uno scatto da parte degli americani nell’essere più proattivi rispetto a questa crisi.
Come si caratterizza la risposta americana a questa crisi?
Come dicevo, si sono mossi tardi. Ma si sono mossi come si muovono loro: quando si muovono, si muovono molto spediti. In questo senso la risposta americana, per quanto tardiva, fa ciò che dovrebbe rappresentare un modello per la futura gestione di emergenze del genere in democrazie liberali: input pubblico con soldi veri – 40 miliardi di dollari provenienti dallo Stafford Act per la gestione dei disastri – 5 milioni di test entro fine mese – che resta un elemento critico come vediamo – supporto attivo del privato nella gestione della crisi, che non rappresenta un orpello ma che è attore attivo, responsabilizzato di supporto al pubblico. Ruolo che nelle crisi europee il privato fatica ad avere, ad eccezione di una serie di attori che invece stanno dando prova di affidabilità e senso del bene pubblico – come non pensare al ruolo che la Siare ha avuto in questa crisi e alla sua capacità, supportata anche dal pubblico, come dimostra l’invio degli operai della Difesa in supporto alla catena di produzione.
Che lezioni possiamo trarre da questa crisi?
Posso parlare delle lezioni politiche che possiamo trarre, non di altre per le quali non sono attrezzato. Questa crisi ha messo a nudo le fragilità sistemiche di molti sistemi sociali, politici ed economici, ma non solo dei nostri: come dicevo prima, la Cina non ha gestito il problema quando andava gestito per questioni di natura politica. A dimostrazione che anche quel modello ha crepe importanti. I nostri modelli certamente non perfetti, ma non per questo devono essere considerati obsoleti. In queste dinamiche vedo che si sta facendo largo anche un virus ben più subdolo e probabilmente duraturo: quello della paura e dell’ansia. Tale virus può deformare percezioni, aumentare i timori, e rafforzare la tentazione della scorciatoia: la performance, i risultati immediati diventano più quindi più importanti della libertà e dei limiti del potere.
Questa tentazione va rigettata, e la lezione che viene da questa crisi deve imporci un’attenzione sempre più forte: la libertà deve rimanere bussola politica e sociale imprescindibile, vi è bisogno di un pubblico efficiente ed attivo – come dimostra l’encomiabile sforzo del settore sanitario italiano che nonostante i problemi e i tagli ha risposto alla grande a un problema di tali proporzioni – ma aperto e non oppressivo, le partnership col privato devono dare quella dinamicità che non sempre il pubblico può garantire. Le scorciatoie autoritarie devono rimanere lontane. Anche perché, con queste scorciatoie, si sa dove si inizia, ma non si sa dove finisce.
In Italia in molti hanno dimenticato cosa successe dopo il terremoto di Messina del 1908 e gli Stati D’Assedio. Quando si guarda a modelli autoritari come modelli per il futuro, bisogna guardare dentro la nostra storia e ricordarci dove certe tentazioni ci hanno poi portato.