A cosa serve l’Europa? L’esplosione del coronavirus in Italia prima e sul continente poi, ha amplificato con forza questa domanda insieme a tante altre simili che mettono in dubbio tutto ciò che riguarda qualsiasi legame con e nel Vecchio Continente. Non senza qualche motivo.
Sin dal primo conteggio in Italia, da parte di Bruxelles (e dei singoli Stati): incomprensione iniziale su quel che stesse accadendo, valutazione del problema come “solo italiano”, paure ed isolamenti; Paesi in ordine sparso e ritardi nelle misure. L’Europa è stata assente o quanto meno distante. Nella prima settimana un virus misterioso che avanzava e la presidente della Bce che alzava le spalle contribuendo ad una emergenza economica oltre che sanitaria.
Che il sentimento antieuropeo si sia così radicato non deve stupire: da anni l’Unione soffre di popolarità, spesso per sue stesse mancanze ed errori di governance. I movimenti antieuropei hanno trovato terreno fertile, la crisi migratoria e la Brexit hanno contribuito ad indebolire il quadro e adesso un virus venuto da lontano ha toccato nervi scoperti allontanando i singoli dalla dimensione europea. Proprio mentre, nei giorni dell’emergenza, Cina, Cuba, Russia recapitavano (in parte donate, in parte comprate) materiale sanitario necessario. Mai come adesso l’Unione è messa in discussione.
Lo sbandamento iniziale, le scelte da fare, le priorità da affrontare. Poi il 21 marzo la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, sul Corriere della Sera indica le principali misure concrete (e altre meno note) che l’Ue ha messo in campo: rilevante sostegno economico, acquisti centralizzati per le forniture, sostegno per le produzioni sanitarie, assistenza al rimpatrio dei cittadini europei nel mondo, investimento nella ricerca mirata al vaccino, la Bce che ha corretto il tiro e garantisce liquidità, la sospensione del patto di stabilità, la definizione di meccanismi da eurobond.
Si tratta di risorse e iniziative necessarie per l’emergenza e soprattutto per il post emergenza, con miliardi di euro disponibili, soluzioni normative e investimenti: è poco? Basta? Non si sa se tutto ciò basterà, certamente non è poco e da la cifra della forza che l’Europa è capace di mettere in campo, ma ci consegna una consapevolezza – non sempre ammessa e già sperimentata in altre occasioni – che ci sono problemi così grandi che i singoli Stati, per quanto importanti e organizzati, non riescono ad affrontare da soli. Senza la Ue non ce la facciamo, ne noi ne gli altri.
E però, diffusa e nonostante questi fatti concreti, rimane ancora una domanda: a cosa serve l’Europa se si limita ai momenti di emergenza? Una ondata terroristica diffusa, il fenomeno migratorio epocale, la fuoriuscita di un grande Paese e adesso una pandemia: il decennio dal 2010 al 2020 (con casuale ma precisa cadenza triennale) ha messo in discussione quel che è stato costruito in 70 anni.
Quattro eventi sovranazionali hanno contribuito a minare le fondamenta principali su cui si basa l’Unione europea: la libera circolazione di persone, merci, competenze e la creazione di un’area unica di libero scambio messa a rischio talvolta da incapacità della politica, talvolta da macchinosità della governance europea davanti a sfide globali. Gli anni 20 del nuovo secolo si presentano con un grande punto interrogativo proprio sul “core business” dell’Ue sin dalla sua nascita.
Su quattro grandi prove del decennio, quella attuale è la più difficile. Al netto di misure e risorse messe in campo (notevoli) questa è una crisi diversa e nuova e serve risposta diversa e nuova. Affrontarla con risposte e strumenti vecchi non ci servirà. Non servirà appellarsi soltanto all’unità. Non servirà modificare, aggiornare, correggere ma è necessario cambiare l’Unione, sua percezione ed impatto interno ed esterno.
Così come dopo la Seconda guerra mondiale ci fu la consapevolezza di una “cosa” nuova e dell’importanza dell’Europa, adesso serve stesso approccio per un nuovo start che confermi le motivazioni (le libere mobilità in piena sicurezza) ma dentro orizzonte e organizzazione nuovi e soprattutto con la consapevolezza della necessità di un nuovo rinascimento europeo animato di coraggio. “Con la prudenza ma anche con l’audacia” per stare alla riflessione di Alessandro Baricco rispetto alla nuova società che ci aspetta.
Oggi, davanti al pericolo, molti chiedono muri e chiusure ma nello stesso tempo aumenta il numero di quanti chiedono all’Europa di “fare di più” perché vi è forte la percezione di problemi “più grandi” della propria dimensione statale. Adesso più che mai, nel momento di pericolo per la salute, abbiamo anche sperimentato il mondo dei nazionalisti: tutti si chiudono a riccio nei propri confini, per paura o per calcolo.
Arrivano mascherine, materiale e respiratori da parte della Cina e di altri (grazie!) così come i medici da Cuba (grazie!) ma sappiamo bene che sono e saranno le misure europee che ci fanno “stare in piedi” e ci permetteranno di ripartire. Dal mondo un grande aiuto (molte cose le paghiamo) e l’Ue ha risposto lentamente ma sono gli strumenti di quest’ultima che, ma man mano che vanno a regime, per dirla con Romano Prodi “danno schiaffi a coloro che si auguravano che l’Europa non facesse nulla”. Basta ciò?
Pian piano fasce sempre più larghe – non senza chi soffia sul fuoco – si chiudono all’orizzonte europeo. Ciò che ha determinato l’Europa come protagonista globale e come strumento di vantaggio per tutti è proprio lo spazio unico di libertà che ha costruito, se lo si mette in discussione si mettono in discussione i motivi che lo hanno generato.
Il futuro si apre a pericoli non conosciuti e a nuove sfide, negarlo o pensare che tutto resti immutabile è un errore grave almeno quanto la messa in discussione dell’Europa stessa. Solo 5 anni fa nessuno avrebbe previsto Brexit o un virus che alzava barriere. Bisogna scegliere strade nuove e soluzioni differenti, conciliare sicurezza e libertà. Cogliere le nuove preoccupazioni e le paure senza deriderle affrontandole con una risposta comune. Ma nuova. L’Europa è ancora la risposta giusta, ma deve interpretare le domande nuove.
In questi giorni 63 anni fa a Roma la firma dei Trattati che davano via al percorso che ha realizzato l’Unione europea ed oggi uno dei Consigli europei più importanti della nostra storia (il fatto che si svolga in videoconferenza la dice lunga sulla situazione…). Il sentimento di costruzione di questi 70 anni rischia di perdersi se non si chiarisce il rapporto Ue/Stati, se non si determinano competenze politiche europee, se non ci si dota di un sistema unitario di armonizzazione fiscale con budget. E soprattutto se non emerge una vera classe dirigente europea, quella dei singoli Stati, salvo rare eccezioni, ha orizzonte diverso da quello continentale.
Occorre distinguere quel che di buono è stato fatto sinora da quello che non ha funzionato. Certamente bisogna aver chiaro che, per dirla con Paolo Gentiloni, adesso serve una “risposta comune e nuova” o in tanti continueranno a chiedersi “a cosa serve l’Europa?”. L’Europa può fallire, oppure come in un videogame passare al quadro successivo più forte, più definita. Fierezza e orgoglio nazionali sono cifra di amor patrio ma vanno vissute in maniera positiva e non come luoghi dentro cui chiudersi.
Virus, cambiamenti climatici, innovazione tecnologica, economie globali, non hanno frontiere e superano le pareti. Adesso, per essere utile, serve una superEuropa. Se non ora, quando?