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Cosa può fare l’Europa per il rilancio dell’economia? L’analisi di Pennisi

Che può fare l’Europa per facilitare l’uscita da una recessione che per Germania ed Italia sembra imminente e pesante e che potrà trascinare gli altri Paesi dell’Unione monetaria, se non dell’intera Unione europea?

È una domanda che molti si pongono in coincidenza della riunione virtuale (sarà su Skype od altro strumento simile) dei ministri dell’Economia e delle Finanze dell’eurozona in programma oggi 11 marzo e del Consiglio della Banca centrale europea (Bce) in calendario domani 12 marzo.

Temo purtroppo che, nel breve termine, l’Ue od anche solamente l’Unione monetaria potranno fare piuttosto poco. Non sono completamente bloccate della mancanza di competenze in materia – come del caso del coronavirus ed altre epidemie che rientrano in un settore (la politica sanitaria) di stretta competenza nazionale. Ma, allo stato del diritto europeo e soprattutto dei fatti, hanno strumenti molto limitati.

Per mettere in atto un programma europeo che riesca ad incidere effettivamente sull’uscita da una recessione sono necessari interventi molto forti sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta nonché sia di politica monetaria sia di politica di bilancio sia di politica dei prezzi e dei redditi.

In materia di politica dei prezzi e dei redditi, nonostante la buona volontà del Consiglio Economico e Sociale Europeo, gli organi dell’Ue non sono mai riusciti a coordinare interventi di stretta competenza nazionale. In materia di politica monetaria, si potrebbe forse pensare ad un rilancio del Quantitative Easing (pur se a tassi d’interesse rasoterra come gli attuali avrebbe effetti molto limitati) ma non sembra essere questo l’orientamento né del Ppresidente della Bce, Christine Lagarde, né del Consiglio dell’istituzione. In materia di politica di bilancio, i trattati e gli accordi intergovernativi europei prevedono ampia flessibilità se si è colpiti da eventi eccezionali (come calamità quali il coronavirus): il vincolo principale è la capacità di indebitamento, soprattutto se ci si deve rivolgere ai mercati internazionali.

Il nodo essenziale è proprio quello di poter ottenere risorse senza aumentare il debito pubblico oltre i limiti ai quali il mercato richiederebbe un incremento dei tassi d’interesse. Il bilancio della Commissione europea è appena poco più dell’1% del Pil ed è già quasi interamente impegnato per i prossimi sette anni.

Ci vogliono altri strumenti. È in questo quadro che è tornata di attualità le proposta, lanciata dieci anni fa al momento della crisi del 2008-2009, di eurobonds, eurounionbonds, eurorescuebonds. Le denominazioni variano ma la sostanza è la stessa: obbligazioni emesse dall’Ue (da un’istituzione come la Commissione) e garantite, quindi, da tutti gli Stati membri, asset, quindi, molto sicuri e tali da attirare il risparmio privato (che nell’Ue è particolarmente elevato ed è alla ricerca di impieghi che diano un rendimento adeguato consentendo al tempo stesso di “dormire tra due cuscini”). Il direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica, Carlo Cottarelli, ha stimato che all’Italia serve un piano da 36 miliardi di euro da finanziare in eurobond.

L’idea è ineccepibile – e la stima di Cottarelli approssimata per difetto – ma non credo che possa essere realizzata nei tempi necessari. Pur ipotizzando che venga inclusa nell’ordine del giorno del Consiglio dei Capi di Stato e di governo del 26-27 marzo (per ora non lo è) – e che si ottenga un’intesa di principio da parte degli Stati che in passato sono stati maggiormente recalcitranti – ci vorrà almeno un anno per la preparazione di una proposta da parte della Commissione, con l’ausilio dei ministeri competenti degli Stati membri, ed almeno un altro anno per la sua approvazione da parte del Consiglio europeo e del Parlamento europeo. E altro tempo per le procedure di ratifica.

L’esigenza di supporto europeo è, invece, immediata. Quindi, senza abbandonare l’idea ed anzi iniziando un suo eventuale iter, occorre pensare ad alternative. La strada più semplice può essere quella di emissioni straordinarie di obbligazioni della Banca europea per gli investimenti (Bei) mirate a migliorare, almeno, il parco infrastrutturale degli Stati, come l’Italia, più colpiti dalla crisi e facilitare la ripresa tramite investimenti che nella fase di cantiere attivino fattori di produzione ed in quella a regime aumentino la produttività.

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