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Vi spiego cosa succederà dopo la vittoria di Netanyahu in Israele. L’analisi di Dentice

Di Giuseppe Dentice

Ancora una volta ha vinto lui. Netanyahu c’è l’ha fatta e ha vinto contro ogni pronostico le terze elezioni in meno di un anno andate in scena in Israele. Un voto segnato dall’affluenza più alta dal 1999 (il 71%) e nel quale ha vinto soprattutto il personaggio istrionico Benjamin Netanyahu. Ha vinto sulla voglia di cambiamento e la stanchezza derivante da 11 mesi di stallo politico-istituzionale, aggredendo – mai come in questo caso il verbo non ha un valore puramente simbolico – gli avversari; ha inondato il Paese di messaggi rassicuranti rivolti a tutti, laici, religiosi e perfino arabo-israeliani, riuscendo a capovolgere in poco più di una settimana tutti i sondaggi che lo davano nettamente sconfitto.

Per capire il valore della vittoria di Netanyahu bisogna partire dall’ultima settimana, nella quale tutti i poll lo davano sconfitto 32 seggi a 35 in favore di Benny Gantz. Il leader di Kahol Lavan (Blu e bianco) era il principale sfidante del premier uscente e candidato naturale alla vigilia a prenderne il posto alla guida di un governo estremamente eterogeneo, unito dalla sola volontà di estromettere colui che è stato indicato da diversi insider delle più importanti istituzioni nazionali – tra cui Yuval Diskin, ex capo dello Shin Bet, il controspionaggio interno – come una minaccia alla sicurezza e alla stabilità di Israele.

Una vittoria che appariva prossima anche in virtù delle accuse di corruzione pendenti a carico del leader del Likud e un processo che si dovrebbe aprire fra due settimane circa (17 marzo). A ciò bisogna aggiungere anche le faglie emerse nel fronte interno al Likud, il partito di maggioranza relativa del Paese, di orientamento tradizionalmente conservatore e oggigiorno oscillante verso posizioni sempre più di destra, che ha iniziato a nutrire dubbi sulle possibilità di mantenere Netanyahu ai vertici dello Stato, non tanto per questioni di capacità ma di opportunità politica. Infatti, nel dicembre 2019 si sono svolte le primarie di partito e King Bibi le ha vinto alla sua maniera, ossia dominandole e lasciando a Gideon Saar, ex ministro degli Interni e suo maggior critico nel partito, un onorevole 27,5% di preferenze.

Alla luce di ciò si sarebbe potuto pensare che i giochi fossero finiti. Invece no, perché anche in questo caso è emerso il fattore Netanyahu. Lo scenario che sembrava perfetto, anche troppo, è stato sconvolto da una nuova rimonta guidata, in una decina giorni, dal leader più longevo nella storia di Israele – è in carica come primo ministro sin dal 2009.

Netanyahu ha dapprima accusato il suo avversario di essere un codardo e un corrotto e poi lo ha tallonato colpo su colpo, facendo emergere chiaramente tutti i dubbi e le incertezze nella evanescente campagna comunicativa e nei contenuti del programma di Gantz, che si è confermato un competitor debole e incapace di sfruttare adeguatamente un leader fiaccato come Bibi. Pur con tutte le critiche e le tare politiche a suo carico, Netanyahu si è dimostrato un animale politico ed elettorale straordinario in grado di mostrarsi più arduo e difficile da sconfiggere nonostante le oggettive difficoltà emerse. Non a caso uno dei quotidiani più diffusi nel paese, Israel HaYom, titolava ieri in prima pagina: “La vittoria più importante della mia vita”, riferendosi alla frase pronunciata da Netanyahu nei primi commenti post-elettorali dopo il rilascio degli exit poll.

Gantz ha pagato la sua eccessiva pacatezza nei toni e la voluta timidezza nell’affrontare argomenti molto sensibili nella popolazione israeliana, che si è ormai ben abituata ai torni urlati ed esasperati della politica di oggi. Sebbene i due contendenti avessero posizioni molto simili su diversi argomenti, Gantz ha mostrato estrema conciliazione nei confronti di tutte le parti anche in un argomento come la proposta americana di piano di pace, il cosiddetto “accordo del secolo”.

Gantz aveva promesso in campagna elettorale di voler annettere la Cisgiordania, esattamente come Netanyahu, ma ha voluto marcare alcune distanze (“annessione della West Bank nei limiti e nelle disposizioni del diritto internazionale”) usando un gergo e un modo di fare forse conciliante con la comunità internazionale di stampo liberale, ma poco compiacente con una parte importante dell’elettorato israeliano. Medesimo atteggiamento lo ha avuto in merito alla presentazione del piano Trump alla Casa Bianca, lo scorso 28 gennaio, dove ha rifiutato di apparire insieme al suo competitor nel timore che l’evento si trasformasse in una polpetta avvelenata che lo avrebbe messo in difficoltà. In effetti così è stato ma per demeriti soprattutto di Gantz, che ha dimostrato poca chiarezza sulla posizione che avrebbe dovuto tenere Israele (aprire a negoziati con i palestinesi? Favorevole all’annessione?), mentre Netanyahu ha subito puntato forte sull’annessione, facendone una sua bandiera elettorale di forte impatto simbolico.

Inoltre, nell’ultima settimana di campagna elettorale, il maggiore colpo di scena è stata l’uscita di alcuni audio intercettati dalla televisione Channel 13, nei quali si ascoltava il chieff strategist di Benny Gantz, Yisrael Bachar, parlare molto male in termini di personalità e capacità politiche del suo stesso capo. In sostanza, la vittoria è stata un’affermazione personale del premier uscente sul suo avversario più diretto, il quale è stato demolito e screditato agli dei suoi elettori, passando invece l’immagine di un Netanyahu leader forte e autorevole, quindi, indispensabile per Israele.

Netanyahu ha dunque vinto, ottenendo 36 seggi, mentre 32 sono quelli conquistati da Kahol Lavan. Il Likud, insieme ai suoi alleati della destra più nazionalista e religiosa (Shas, Yamina e United Torah Judaism), ha ottenuto 59 seggi in tutto, contro i 39 di Kahol Lavan, Labour-Gesher, Meretz, mentre il blocco arabo guidato da Lista unita conquista 15 seggi e si propone come unica reale alternativa di opposizione. Per raggiungere la soglia minima di 61 parlamentari la distanza non è profonda, ma certamente non agevole, considerando che Lieberman, pur avendo grossomodo mantenuto i suoi seggi (7 a fronte degli 8 conquistati nel settembre 2019), ha ribadito la sua contrarietà nell’entrare a far parte del governo, confermando al contempo la sua più insita volontà di candidarsi al post-Netanyahu, aspirazione ardua da raggiungere almeno nel breve periodo, ma che potrebbe divenire una possibilità se il suo partito concedesse un appoggio esterno al futuro esecutivo e se soprattutto lo stesso premier accettasse di voler dipendere dagli umori del leader di Yisrael Beitenu.

Quali sono i prossimi passi? Allo stato attuale la possibilità più concreta, data anche la bassa soglia di seggi mancanti, è quella di ingolosire alcuni rappresentanti delle opposizioni più vicine al mondo Likud. Anche in questo caso il target è Kahol Lavan e anche qui sarà importante capire quale sarà la tenuta del partito e del suo leader Gantz, ex capo di stato maggiore e militare pluridecorato, che si gioca una buona fetta di credibilità almeno agli occhi del suo stesso elettorato moderato che non vuole avere Netanyahu come primo ministro. Gantz sarà in grado di serrare le fila e impedire sdoganamenti sul fronte della maggioranza? Difficile dirlo oggi, però è probabile che le maggiori pressioni del Likud saranno qui rivolte e ancora una volta Netanyahu giocherà il tutto per tutto per mostrarsi come l’unico vero leader nazionale.

In attesa di capire se effettivamente Netanyahu ce la farà a formare il governo o saranno necessarie nuove trattative con i partiti per dare origine ad un esecutivo di unità nazionale, il successo del leader del Likud porta con se due obiettivi molto chiari, da dover discutere presto o tardi: 1) blindare il suo ruolo istituzionale lanciando una battaglia costituzionale con la magistratura per portare nel dimenticatoio i processi a carico del premier; 2) dare il via libera all’annessione della West Bank, dopo aver aiutato Trump a essere rieletto a Washington. Resta da capire come il calendario politico andrà di pari passo con quello giudiziario e personale di Netanyahu.

Di sicuro in uno scenario di conferme, un premier incriminato e ancora nel pieno delle sue funzioni è un unicum nella storia del Paese e rappresenterà sicuramente l’ennesima sfida a cui neanche un leader come Netanyahu potrà sottrarsi.

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