Ed eccoci al modello cinese. Esso è proteso nello sforzo propagandistico, come dimostra l’arrivo in Italia di una missione sanitaria che ha di mira il consolidamento della penetrazione economica e culturale cinese in Italia. Una penetrazione già molto profonda come dimostra il lavorio della diplomazia cinese nel settore delle industrie strategiche delle telecomunicazioni e nei nostri stessi servizi segreti, come si è reso noto anche in sede parlamentare con grande trasparenza.
Ed è attraverso il filtro dell’ascesa cinese nella potenza geopolitica che possiamo leggere altresì il ruolo degli Usa anche rispetto alla pandemia.
Tutto ha inizio, di fatto, con la nuova era del potere imperiale cinese impersonificato dall’ascesa dell’attuale segretario generale del Pcc. Xi Jinping è segretario generale del Partito Comunista Cinese dal 15 novembre 2012 e presidente della Repubblica popolare cinese dal 14 marzo 2013.
Il nuovo capo della Cina rappresenta la mediazione tra i quadri della gioventù comunista guidati da Hu Jintao e i quadri “tecnocratico-familistici” guidati da Jiang Zemin. Familistici perché tutti eredi dei leader storici del partito e tecnocratici prescelti da Deng Xiaoping nel periodo post rivoluzione culturale per guidare il partito nella modernizzazione capitalistica.
Xi Jinping è uno di questi “principini”, ossia figli della nomenclatura maoista formatisi all’estero e poi ritornati in patria per occupare prestigiosi posti di potere. I militari sono per questa ragione l’ago della bilancia e possono esserlo tanto più oggi e nel decennio che verrà, perché Xi Jinping non ha una leadership personale forte e indiscussa, ma è condizionato dalle due fazioni in lotta. Tutto questo riflette e insieme rafforza la trasformazione della Cina da potenza di terra in potenza marittima.
E questa trasformazione apre un conflitto irrimediabile con gli Usa per il controllo dello spazio vitale asiatico, elevando lo scontro in primo luogo con il Giappone e il Vietnam e la Corea del Sud.
Non a caso, il modello di difesa dalla pandemia sudcoreano e vietnamita (che è quello di fatto vincente, come spiegherò dopo), non è altro che un “modello britannico-tedesco unito al modello italiano”. Ciò deriva dal fatto che la minorità demografica di queste nazioni secolari impone di difendere gli strumenti economici della potenza in guisa consustanziale con gli strumenti e l’ingegneria sociale idonea alla difesa del potere demografico: salute ed economia non possono che essere unite. Nessuno deve morire, pochi debbono ammalarsi, pena la diminuzione dell’equilibrio di resistenza al nemico secolare: la Cina imperiale.
Una Cina, in aggiunta, colpita da alcuni anni dalle grandi contraddizioni che iniziano a caratterizzarne l’economia, surriscaldata da un’eccezionale crescita nei beni strumentali ma da un debole rafforzamento, di contro, del mercato interno e naturalmente da una sempre crescente scarsità di fonti energetiche.
Per questo si riprende la tradizione, interrottasi nel 1436, quando gli imperatori Ming proibirono la costruzione di navi e distrussero tutta l’immensa flotta cinese. I dati che possediamo per il periodo dal 1404 al 1407 dicono che in soli quattro anni si costruirono ben 1681 navi, con cui si raggiunsero l’Indonesia e le coste orientali dell’Africa. Perché la Cina si sia richiusa poi in sé stessa è un mistero. Da allora è una potenza terrestre, a lentissima crescita e spesso invasa da eserciti stranieri, sino alla rivoluzione maoista. La Cina è ora impegnata a divenire una potenza marittima. Ciò apre nuovi scenari mondiali.
La posta in gioco è certamente il dominio marittimo asiatico. Ma il confronto è destinato ad allargarsi. Non è mai esistita una potenza marittima di così grande impatto demografico. Questo è il vero nuovo problema dell’ordine mondiale. Dinanzi a tutto ciò l’Europa è assente come potenza politica e marittima, soffocata dai suoi conflitti di potenza che gli osservatori per lo più incolti scambiano per stucchevoli e disastrosi litigi.
Eppure, proprio le potenze continentali europee dovrebbero guardare a ciò che emerge in Asia, se non si vuole essere sommersi dall’imperialismo cinese. Ma per far ciò occorre un pensiero strategico globale. E la condizione culturale con cui si è risposto e si sta rispondendo in Europa alla pandemia dimostra che l’Europa come potenza culturale non esiste. E senza cultura i popoli sono disarmati perché è l’assenza di cultura che disarma, non la mancanza di armi.
Invece è successo, dinanzi alla pandemia, come dinanzi alla crisi economica e all’ascesa minacciosa dell’imperialismo cinese, tutto il contrario di ciò che avrebbe dovuto accadere se le potenze continentali europee e gli Usa avessero posseduto un orientamento strategico realistico e fondato sul cosiddetto “interesse prevalente” geopolitico, anziché un orientamento determinato dal potere di condizionamento dell’alta finanza internazionale globalizzata e denazionalizzata.
Il ruolo della Cina è, infatti, solo in parte dovuto a ragioni demografico-geopolitiche: certamente essa possiede in misura rilevante i giacimenti dei cosiddetti “elementi strategici” pesanti. Ma la ragione vera del suo possibile monopolio economico relativo risiede nella dismissione della ricerca avvenuta in primis in Occidente.
Per questo le mosse aggressive della Cina, soprattutto in Africa, dove il suo ruolo di imperialismo da debito inizia a divenire preclaro, come nel Sud est asiatico e in India, può rivelarsi un grave passo falso. Così come lo sono le minacce di embargo degli “elementi strategici” scagliate contro l’Occidente in occasione delle ricorrenti “guerre valutarie “in corso e che gli anch’essi ricorrenti G20 cercano invano di porre sotto controllo.
Un fatto, questo, che può far perdere alla Cina quei formidabili alleati che essa possiede in tutto l’Occidente: circoli intellettuali, grandi banche d’investimento e circoli finanziari in generale, che diffondono l’idea – anche in buona fede, in alcuni casi – della non aggressività della Cina.
Non si comprende su quali basi storiche si sia potuta creare una simile corrente ideale, se non grazie alla disinformazione diffusa tanto dall’incompetenza quanto dall’arte della propaganda della raffinatissima burocrazia del Partito Comunista Cinese. Chissà se la questione degli “elementi strategici” ci porrà finalmente dinanzi alla consapevolezza che la Cina non è un paese capitalista come quelli occidentali, ma un regime a capitalismo monopolistico di Stato controllato da una burocrazia dittatoriale protesa al dominio mondiale?