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Social Don? La Chiesa si riscopre digitale ma occhio alle improvvisazioni. Parla padre Garini

In questi giorni di emergenza per il Coronavirus vediamo come la Chiesa si stia attrezzando per incontrare i fedeli sui canali di comunicazione digitali. Don Michele Garini, parroco nel mantovano, su questo tema ha scritto “Social don. Preti online e in parrocchia” (Edizioni Messaggero Padova 2019). “Le scelte di annullare incontri e impegni sono dolorose. Però non sono un menefreghismo del parroco, ma modalità di responsabilità”, ci spiega al termine della conversazione con Formiche.net. Un contrasto che però non sempre è immediato, replichiamo. Anche perché spesso accade di leggere chi afferma, in maniera becera: una volta i parroci stavano vicini ai sofferenti, mentre oggi ci si ritira nei social. “Le dirò, statisticamente ho l’impressione che i membri del clero coinvolti lo siano in percentuale maggiore rispetto al resto della popolazione. D’altronde vediamo che accade lo stesso anche per politici o per chi opera nelle istituzioni, cioè a chi nel quotidiano incontra normalmente molte persone”.

Don Michele, come pensa che la Chiesa si stia muovendo sui canali digitali?

Pensando a questo argomento, subito si nota che da decenni la Chiesa utilizza mezzi di comunicazione per arrivare a fedeli, di solito quando sono impossibilitati per malattie, invalidità o anzianità. Pensiamo alle celebrazioni fatte in via radiofonica o televisiva. La dinamica quindi non è nuova in sé stessa o per se stessa. È diventata nuova nel momento in cui si è passati alla rete, e soprattutto perché i destinatari, in questi giorni, sono diventati la totalità dei fedeli.

Ha dei consigli da offrire alle parrocchie che vogliono utilizzare il web per restare in contatto con i fedeli?

Eviterei l’improvvisazione o l’anarchia. E non credo sia necessario che ogni singolo sacerdote produca e pubblichi contenuti multimediali. Credo che servano contenuti, anche a livello liturgico, di una certa qualità, e soprattutto credo che, visto che le diocesi si stanno muovendo tutte in questa direzione, e anche la stessa Santa Sede lo sta facendo, non vedo la necessità che tutti i singoli preti o parrocchie postino sui propri siti, o canali social, una celebrazione. Io sono parroco di due piccolissime comunità, ma non mi è passato per la testa di riprendere la mia celebrazione domenicale a porte chiuse. Vedo che lo fa la nostra diocesi con il nostro vescovo, lo fanno praticamente tutte le diocesi italiane, e vedo poi tutte le possibilità radiotelevisive da sempre a disposizione.

I social però possono offrire maggiore possibilità di interazione e interscambio.

Io credo che si sia ribaltato un po’ tutto. Nel momento in cui avevamo avuto la possibilità di vivere relazioni dirette, personali o sociali, la tendenza è di rifugiarsi in ambito social. Mentre oggi in cui ci viene chiesto di restare a casa, c’è un’esigenza assoluta di fisicità, talvolta anche violando le indicazioni governative. È curioso e in una seconda fase credo possa essere promettente anche in ambito ecclesiale. È come se questi momenti facciano emergere un desiderio che prima veniva dato per scontato. Ora non rischia di essere più ovvio ma riscoperto in tutto il suo valore e la sua preziosità. Forse non è proprio vero la che virtualità ha sostituito l’umanità.

Il libro analizza varie tipologie di prete social. Per esempio?

Si vede come la proiezione social di queste figure presbiterali ha profondissime aderenze alla realtà della pastorale, in quanto molte dinamiche e prospettive sono le stesse. Io da un lato sono critico con un eccessivo investimento economico, in termini di energie e risorse, nel confidare in un mondo social e di virtualità. Mentre dovremmo promuovere tutte quelle occasioni di incontro, socialità e condivisione che passano dall’immediatezza delle relazioni e dallo stare insieme.

Come ci si deve comportare in rete, quali sono le linee guida da seguire?

Abbiamo già detto di evitare le improvvisazioni, ma bisogna anche comprendere che mezzi diversi richiedono stili comunicativi diversi. Quello che viene postato nei social rimane scolpito nella pietra. Servono attenzione, equilibrio, saggezza, altrimenti è facile farsi trascinare in discussioni e dialoghi da cui può venire tutto e niente di buono, e da possibili situazioni a rischio in cui quella del sacerdote diventa una contro-testimonianza. Basta fare una ricerca in rete per vedere gli scivoloni clamorosi fatti dai miei confratelli. Un’altra cautela è quella di non lasciarsi eccessivamente coinvolgere a livello di tempo, sottraendolo alle attività fondamentali del sacerdote, e senza eccessivamente confidare troppo in questo mezzo. Io credo che i social siano un ottimo complemento. Ma, appunto, un complemento, e neppure fondamentale. Tra le figure che evidenzio nel libro, ad esempio, c’è quella di chi si illude di poter predicare il Vangelo in 140 caratteri, oppure quello che crede di fare discorsi apologetici per convertire i fedeli lontani (ride, ndr).

Ci sono dei casi di comunicazione sul web, nella Chiesa e fuori, che l’hanno colpita in questi giorni in maniera positiva, e altri in maniera negativa?

In senso positivo mi ha colpito una certa trasparenza con cui autorità civili e religiose stanno dando conto della situazione. È vero che i numeri possono ingenerare preoccupazioni e panico, ma mi sembra che ci stiano davvero dicendo come stanno le cose, al di là dei soliti complottismi. Spero di non essere smentito. Ma è un appello alla nostra responsabilità. È come se ci dicessero: noi siamo il Governo, oppure noi siamo la Chiesa, e possiamo provvedere, ma da soli non possiamo farcela, abbiamo bisogno di voi. Serve tutta la vostra partecipazione, responsabilità e prudenza. Che se vogliamo è un discorso profondamente ecclesiale.

Non sempre accade così, purtroppo.

Anche nelle nostre parrocchie, si tende a voler attribuire sempre tutto al prete, ma c’è una componente laicale che deve diventare sempre più protagonista. Una parrocchia funziona non solo se il parroco è bravo ma se i fedeli si fanno coinvolgere e si sentono partecipi della vita di una comunità. Allo stesso modo avviene per uno Stato, soprattutto nei momenti di crisi, che funziona non solo se c’è un buon governo ma soprattutto se ci sono buoni cittadini.

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