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Soffio progettuale e sguardi nell’oltre

Nel momento in cui si entra in relazione con gli altri, se contemporaneamente non si è questa relazione, significa che si è già caduti nella alienazione (Raimon Panikkar, Vita e Parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010, p. 23)

 

Soffio progettuale

Sia esso Dio o un obiettivo, nulla di ciò che ci realizza vive solo all’infuori di noi. Seguendo Panikkar (2010), l’elemento divino è tanto immanente quanto trascendente. (…) Ed è precisamente questo elemento misterioso, questo soffio, questa presenza trascendente e immanente ciò che conferisce alle cose, così come all’uomo, la loro identità (1).

Si pensi a quanta strada l’uomo, e in particolare l’uomo occidentale, deve ancora percorrere per ritrovarsi. Per come consideriamo l’identità, come un qualcosa di dato e di acquisito “per far nostro”, non ci sembra che ci sia l’abitudine al respiro di quel soffio misterioso, progettuale, in noi.

Potremmo parlare di un soffio spirituale se non chiudiamo l’aggettivo “spirituale” in un sistema di idee determinato, qualunque esso sia, ma se lo consideriamo aperto per abbracciare, come sostiene Panikkar (2010), i diversi cammini dovuti sia alla grazia di Dio, sia agli sforzi dell’uomo, sia al dinamismo della storia, al destino della creazione, ecc. (2).

Sentiamo, in quel soffio, la potenza che istituisce, il potenziale che porta dentro il possibile. Se vive in noi, se è nostra parte, nessuna separazione è ammessa; nel sé, come insieme complesso di corpo/anima/polis/universo, né nella realtà. Il soffio istituisce il chi siamo, il progetto, il nostro essere parte di un tutto cosmoteandrico.

Se, da un lato, l’uomo occidentale ha bisogno di (ri)tornare a conoscere la propria ricca tradizione (siamo ciò che siamo stati), abbandonando l’universalizzazione in luogo di giuste contestualizzazioni, dall’altro lato, in termini di giudizio storico, vale ciò che indica Panikkar (2010): (…) considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre (3).

Il mondo che viviamo manca di quel soffio progettuale che vincola ogni uomo a capire il sé-in-divenire, nel tempiterno evolvere di ciò che siamo stati in ciò che diventiamo, e ad aprirlo a ogni altro in funzione di sfide planetarie che chiedono, al contempo, un “talento cosmoteandrico”. Non vi è solo il bisogno che ogni religione, ogni civiltà, ogni cultura ha di ogni altra ma vi è anche la necessità che si realizzi una nuova alleanza fra le differenze che popolano il mondo. Siamo inter-in-dipendenti, liberi soltanto nel vincolo che ci libera. Qui, a partire dal soffio progettuale che istituisce (instituendoci), possiamo (ri)pensare una politica complessa, una biopolitica affermativa.

Sguardi nell’oltre

Abbiamo un destino-in-comune. Lucebuio, condividiamo la salvezza e la perdizione; qualunque sia la deriva, avverrà per l’umanità intera. Panikkar (2010) così si esprime: Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere eliminate; che si deve fare il possibile, senza lasciarsene dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà di vivere, rimandando a un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovarne il senso in ogni istante (4).

Una sintesi mirabile. In uno sguardo verso un progetto di civiltà, mantenendo vivo il soffio progettuale, la sintesi di Panikkar, da considerare nella sua complessità (il tutto non è la somma delle parti), può essere distinta nelle sue parti e argomentata in una elaborazione “a mosaico”, d’inter-in-dipendenza. È ciò che cercheremo di argomentare. Il mosaico non esiste senza le parti e le parti non esistono senza il mosaico.

Lo sguardo che proponiamo è articolato a partire da una convinzione di fondo, profonda: è troppo facile, e molto utile per pochi a discapito di molti, compartimentare i saperi nella logica di problemi (presunti) disciplinari e muovere analisi lineari, superficiali e, molto spesso, giudicanti, colonizzatrici (di qualcuno che detenga la Conoscenza, la Verità).

Anziché, tanto gli intellettuali quanto i decisori, dare risposte o proporre (indurre e imporre) soluzioni a prescindere dai contesti di realtà, essi dovrebbero (ri)partire dalle domande che maturano nel sentimento di realtà, laddove ogni uomo vive e muore, gioisce e soffre. Non s’intenda, in questo, un semplicistico sentire la gente, gli umori, e rincorrerli.  Ci troviamo, invece, in un punto nodale, di svolta, tra l’atteggiamento prosaico e l’atteggiamento poetico rispetto alla vita. Troppo spesso capita, di abitudine, che la potenza della prosa soffochi, domini, annulli, la tenerezza della poesia; in tal modo tradiamo la nostra essenza prosaico/poetica. Nessuna delle due dimensioni può essere assolutizzata a scapito dell’altra ma entrambe vanno (ri)poste nella loro intima (com)presenza, (com)partecipanti in un’armonia “dinamicamente a-duale” in formazione e mai compiuta in termini di Vittoria Finale.

Invece, ci sembra ben vivo l’atteggiamento di volontà di definizione preventiva di un’armonia, di un ordine. Pur se lo capiamo a “disastro avvenuto”, non problematizziamo i nostri quadri di riferimento, i nostri paradigmi ordinatori, le nostre certezze consolidate, tutto ciò che – comprensibile da un certo punto di vista – ci rende sicuri e ci consolida in una identità definita. Abbiamo sempre bisogno di una solida base di partenza che, però, raramente ci conduce dove avevamo “del tutto” previsto di arrivare. Non siamo software perfetti, l’imprevedibile governa le nostre vite. Il “cigno nero” assume varie forme, ben lo sappiamo.

L’oltre nel quale guardiamo, e viviamo, non è del tutto razionalizzabile. E non solo perché non possiamo sapere ciò che il destino ha previsto per noi ma, anzitutto, perché non conosciamo la nostra stessa interiorità, lucebuio, misteriosi in un soffio progettuale (misterioso) che ci istituisce in maniera non lineare. Non è detto che, se siamo stati educati a certi valori, di quelli ne faremo sicuramente la nostra condotta di vita. Non è detto che gli insegnamenti dei nostri Maestri, per quanto importanti, diventino i nostri.

Gli sguardi nell’oltre, per cominciare, presuppongono una radicale metamorfosi della nostra mentalità.

Sono necessari alcuni passaggi:

  • nell’ (im)prevedibile che, così inteso, è ciò che vive nel profondo di ciò che prevediamo. Problematizzare ciò che ci sembra prevedibile è il passo per essere coscienti e consapevoli che non è Vero (solo) ciò che sicuramente prevediamo ma che esso è percorso da dinamiche che, se pur non vediamo, non possiamo negare nei termini della loro esistenza, del loro appartenere all’universo di realtà nel quale siamo calati. Solo così possiamo e potremo scoprire nuove vie, immaginare futuri ma anche controfuturi;
  • nell’ (im)possibile. Il tutto possibile è totalitario. Il tutto possibile cancella il mistero del potenziale che diventa possibile. Viviamo in società viziate, nelle quali domina il tutto-e-subito nel qui-e-ora di un tempo che chiamiamo “presente imminente”. Nel tutto possibile annulliamo la creatività come “mistero progettuale”, il respiro di ciò che potrebbe nascere nell’oltre del possibile imminente, i nuovi inizi;
  • nella profonda dialettica a-duale. Se esistono le differenze, esiste il conflitto. Esso non va negato e, al contempo, va trasformato in opportunità. Si tratta di un conflitto a-duale, dato dalla (com)presenza di elementi discordanti (logica dell’ e/e) e non dal loro puro antagonismo competitivo (logica dell’ o/o). Bene e male, ragione e passione, si (com)penetrano;
  • nella globalità, tutto-mosaico. Nota Morin (2016): (…) la storia di tredici miliardi di anni di questo universo è in noi. In un certo senso, il tutto è nella parte, e l’avventura umana, che non sappiamo dove vada, partecipa di un’avventura cosmica di cui neppure conosciamo la meta (5). Siamo tutto questo, globali nel profondo e agenti di (ri)creazione del sentimento globale in una globalità (im)prevedibile, (im)possibile, dialetticamente a-duale.

Tali passaggi, inevitabilmente, ci vincolano e ci liberano nella necessità di un pensiero nell’oltre, vissuto, in sé problematizzante la ragione in termini non razionalizzanti. Un pensiero che accolga le infinite complessità dell’essere e che lavori, in noi e tra noi, a (ri)congiungere ciò che è disperso, (ri)conoscendo l’oltre nel comune che ci lega. Dunque, un pensiero (ri)legante, religioso, istituente.

 

NOTE

(1) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 23

(2) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 24

(3) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 25

(4) Raimon Panikkar, op. cit. 2010, p. 26

(5) Edgar Morin, 7 lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, p. 11

 

(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di History of International Politics, Link Campus University)



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