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Terapia intensiva, principi etici ed emergenza Covid-19. Parla il prof. Spagnolo

Di Alessia Amore

Se qualcuno inizialmente aveva sottovalutato il pericolo ora lo stato di emergenza è chiaro a tutti. Le terapie intensive degli ospedali si stanno affollando. Molte strutture stanno trasformando o creando altri reparti dedicati al Covid-19. Non ci sarà posto per tutti. Il problema è scegliere chi curare. È di qualche giorno fa la pubblicazione delle raccomandazioni di etica clinica della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti). Stabiliscono di privilegiare “la maggior speranza di vita” tra chi deve essere ricoverato in terapia intensiva, in uno squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive.

Professor Spagnolo, concorda con questa scelta? Oppure esistono altri principi etici da applicare in situazioni di emergenza, vista l’impossibilità di curare tutti nello stesso modo?

Lo hanno chiamato il “dilemma dell’ultimo letto” (the last bed dilemma) per indicare le problematiche che insorgono quando in mancanza di sufficienti risorse i medici devono “scegliere i pazienti” (di solito sono i pazienti che scelgono i medici) cioè devono definire le priorità per l’utilizzo delle risorse affinché si possano coniugare il principio terapeutico e il principio di giustizia. Si tratta della procedura del triage, che normalmente viene svolta in pronto soccorso ma che diventa particolarmente rilevante quando la scelta implica che alcune persone non verranno trattate perché non rientranti nei criteri definiti di allocazione delle risorse, con la conseguente morte del paziente. Le linee guida della Siaarti dipingono uno scenario di guerra, dove appunto è nato il triage, e che rappresenterebbe la estrema e peggiore delle ipotesi a cui questa epidemia potrebbe portarci. È una prospettiva che può verificarsi ma che forse avrebbe potuto essere meglio comunicata, rappresentando di fatto una posizione che anche in situazioni di emergenza riprende il concetto della proporzionalità dei trattamenti. Di fronte a questo dilemma i vari autori che hanno riflettuto sulla questione nell’ambito di quella che è chiamata la medicina dei disastri o delle catastrofi (il Consiglio d’Europa aveva pubblicato già nel 2002 un bel manuale di Etica di fronte alle varie situazioni che si potevano presentare nelle catastrofi, manuale al quale aveva collaborato il mio compianto maestro Elio Sgreccia), hanno considerato due opzioni che si potevano prendere in considerazione: può essere privilegiato il criterio della temporalità offrendo le cure a chi è giunto prima all’osservazione del medico (first come, first served), oppure un criterio prognostico, riservando le risorse disponibili a chi se ne può giovare maggiormente avendo più possibilità di essere salvato. Nel primo caso si evidenzia in modo chiaro la dedizione del medico ad ogni paziente che si trova nella situazione di bisogno e a cui offre tutte le risorse disponibili. Talvolta però non essendoci la necessità di destinare la risorsa ad altri che ne avrebbero bisogno si può cadere nella tentazione di prolungare senza una reale giustificazione i trattamenti, configurando così una ostinazione irragionevole a continuarli, cosa che sarebbe eticamente negativa dal punto di vista etico-deontologico e anche legale secondo la legge 219/2017. Nel secondo caso il medico fa i conti con le risorse disponibili ed è più impegnato a identificare subito la sproporzionalità del continuare un trattamento affinché della risorsa si possa avvantaggiare un paziente che ne ha le caratteristiche cliniche. Il che non vuol dire sottrarla ad un altro ma decidere che per l’altro non è più proporzionata. Dunque la questione è proprio quella di identificare la proporzionalità/sproporzionalità dei trattamenti in cui però non si possono definire a priori criteri come l’età, la posizione sociale o altri criteri arbitrari: la valutazione dovrò essere fatta al letto del paziente, nella singolarità del caso. Ecco perché la consulenza di etica clinica può apportare un contributo al medico che deve prendere le decisioni sostenendolo in questa scelta.

Alcuni pazienti affetti da coronavirus vengono curati con farmaci ancora in sperimentazione o con farmaci previsti per altre indicazioni terapeutiche. Attraverso il cosiddetto uso compassionevole, l’azienda produttrice può dispensare gratuitamente il farmaco se lo stesso sembri mostrare delle evidenze importanti durante la sperimentazione in corso. Oppure, con un utilizzo off label, può essere somministrato un farmaco al di fuori delle indicazioni previste. In questi casi non si tratta di pratica clinica ma di mettere in atto misure particolari nel caso in cui i farmaci a disposizione non mostrano effetti positivi. Il paziente di fatto entra in una sorta di regime sperimentale. Ma se quel paziente è in stato di incoscienza? Chi dovrebbe firmare il consenso informato? Basta un assenso di un familiare e un consenso differito nel tempo? I Comitati Etici servono a garantire la sicurezza del paziente sottoposto ad una sperimentazione ma non ci sono linee guida uniformi, né la normativa appare chiara. Lei che è vicepresidente di un Comitato Etico come procede in questi casi?

Occorre distinguere l’uso compassionevole (che è meglio chiamare uso terapeutico di farmaco sperimentale) dall’uso off-label. Nel primo caso si tratta di farmaci che sono ancora in sperimentazione o hanno completato la sperimentazione clinica ma che ancora non sono in commercio e dunque non utilizzabili nel vasto pubblico per la patologia per cui sono stati sperimentati. Nel secondo caso si tratta di farmaci che sono già in commercio ma con un’altra indicazione clinica e sono ritenuti dai medici utili (in base a case report o a studi preliminari) anche in situazione diverse da quelle per cui sono registrati. In entrambi i casi, e per situazioni motivate e urgenti, è utile ed etico “provarli” come anche affermato dalla Dichiarazione di Helsinki e in questo caso i Comitati etici hanno il dovere di riunirsi al più presto per esprimere il parere su tali richieste da parte dei medici per i loro singoli pazienti. Naturalmente, tutti i criteri etici devono essere salvaguardati anche in questo caso come nelle situazioni di sperimentazione pianificate. Occorre che ci sia un piano terapeutico preciso, una documentazione scientifica che indica una ragionevole possibilità di beneficio ed un rischio proporzionato (occorre stare attenti, infatti, che il farmaco sperimentale non rappresenti per il paziente critico una ulteriore causa di danno, primum non nocere), un consenso informato che renda consapevole il paziente dei benefici ma anche dei rischi che corre. Indubbiamente, in molte situazioni critiche il paziente non ha la possibilità di esprimere un consenso in quanto intubato o in stato di incoscienza. In questo caso, non essendoci un orientamento etico-giuridico preciso si possono ipotizzare diverse soluzioni.

La normativa non è chiara sulle sperimentazioni in situazioni di emergenza. C’è il Dm 162/1997 che, al punto 4.8.15 spiega cosa fare e il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica pubblicato nel 2012 ma ancora molta confusione, visto che le normative successive al DM del 1997 non prevedono fattispecie di sperimentazioni cliniche su pazienti non in grado di esprimere un consenso in situazioni di emergenza. Nel caso di eventi avversi gravi, senza un consenso informato firmato dalla persona sottoposta alla cura sperimentale cosa accade? La responsabilità ricade sul medico? Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la prima normativa in Italia sul consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento, la Legge 219/2017. Non regola però le sperimentazioni cliniche in situazioni di emergenza ma solo le situazioni di emergenza nella pratica clinica, nelle quali  il medico deve applicare tutte le cure indispensabili ed è coperto da una Causa di esclusione di punibilità “Lo stato di necessità” prevista dall’Art. 54 del nostro Codice Penale. Ma nel caso di un paziente che non può firmare un consenso informato e che potrebbe trarre beneficio nell’essere “arruolato” in uno studio clinico, potendo usufruire di un farmaco sperimentale, come si deve procedere? 

Occorre distinguere gli interventi sui pazienti in situazioni di emergenza, laddove questi interventi sono già indicati per la patologia che si vuole trattare e fanno parte della pratica clinica, e gli interventi di carattere sperimentale che si riferiscono a un ben preciso protocollo o anche a un’ipotesi scientifica laddove non ci sia ancora una chiara evidenza di efficacia. Nel primo caso il medico può fare affidamento sullo stato di necessità (art. 54 cp) e procedere con il trattamento anche se non fosse possibile acquisire il consenso, assumendosene la responsabilità come in ogni pratica clinica, tenendo conto di eventuali linee-guida in materia emanate dalle società scientifiche. Anche in questo caso, una previa consultazione con il consulente etico o con il Comitato etico per la pratica clinica potrebbe eventualmente esprimere anche la sua diligenza nel procedere con l’intervento. Nel secondo caso il carattere sperimentale e di ricerca, in cui un beneficio non è certo e l’obiettivo, ancorché eticamente accettabile è quello di ottenere dati scientifici che potranno essere utili per pazienti futuri, il consenso diventa irrinunciabile. Ma l’impossibilità ad ottenerlo date le condizioni dei pazienti porta a diverse soluzioni sia pur non unanimemente accettate dai Comitati Etici. Si può, eticamente, far leva sul consenso differito del paziente (si inizia con l’approvazione del Comitato etico anche senza consenso e appena possibile si chiede conferma al paziente se accetta di continuare il trattamento) oppure alla non opposizione dei familiari all’uso del farmaco sperimentale (se non sono esplicitamente nominati tutori o amministratori di sostegno i familiari non possono dare un consenso legale). In altri Paesi viene nominato un soggetto terzo indipendente, eventualmente anche identificato dal Comitato Etico, che fa da advocate del paziente (a livello europeo di fatto in alcuni studi viene richiesta la nomina di un Indipendent Ethics Advisor che si occupa specificamente di proteggere i pazienti da arruolare) a partire proprio dalla lettura e approvazione del consenso informato.

Professore, la celebre frase di d’Azeglio diceva: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa frase era esplicativa della difformità che c’era allora sul territorio nazionale a seguito dell’unificazione. Oggi con il federalismo regionale di fatto è ancora così. Sarebbe concorde a riportare la “tutela della salute” nel novero delle materie di competenza esclusiva riservate allo Stato e non concorrenti tra Stato e Regioni? Questo potrebbe evitare ambiguità e disuguaglianze causate dall’adozione di misure diverse tra Regioni.

La salute dei cittadini e il diritto alle cure sanitarie mal si concilia con una sanità regionalizzata in cui di fatto l’equità nell’accesso alle risorse sanitarie non è affatto garantita, creandosi disparità fra le diverse regioni circa le cure da riservare ai propri cittadini. Nella prospettiva di un’etica personalista abbiamo due principi fondamentali che dovrebbero essere rispettati, due principi strettamente collegati fra loro: il principio di socialità e il principio di sussidiarietà. Il principio di socialità impegna ogni singola persona a realizzare se stessa nella partecipazione alla realizzazione del bene dei propri simili e dunque richiede la consapevolezza che la propria vita e salute non è un bene soltanto personale, ma anche sociale. In questo senso l’attenzione alle disposizioni ministeriali circa l’adozione di stili di vita congrui, l’adesione alle vaccinazioni per proteggere se stessi e gli altri, la limitazione della propria libertà per prevenire la diffusione del contagio ecc. sono tutti comportamenti personali che richiamano ad un dovere alla salute (spesso viene sottolineato solo un diritto ad essa). Il principio di sussidiarietà da un lato impegna la comunità a fornire maggiore aiuto laddove c’è più bisogno (curare di più chi è più bisognoso di cure e spendere di più per chi è più malato). Dall’altro non deve soppiantare o sostituire le iniziative libere dei singoli e dei gruppi, ma garantirne il funzionamento. In questo senso le strutture private o le regioni possono esprimere la loro sussidiarietà e concorrere alla realizzazione del bene dei malati affinché siano garantiti a tutti e non solo ai cittadini di una determinata regione, tutti i mezzi per accedere alle cure necessarie, anche a costo di chiedere sacrifici maggiori a chi meglio può sostenerli.

 



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