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In Alaska vince Biden, ma è la pandemia a preoccupare. L’analisi di Gramaglia

Primarie per posta e in sordina in Alaska, dove, la vigilia di Pasqua, viene proclamato il vincitore: Joe Biden ottiene oltre il 55% dei suffragi e nove dei 15 delegati in palio, mentre Bernie Sanders riceve poco meno del 45% dei suffragi e sei delegati. Le schede erano state preparate, distribuite e in massima parte spedite prima che Sanders, mercoledì 8, si ritirasse dalla corsa alla nomination.

I risultati arrivano insieme ai dati di un’ennesima giornata tragica sul fronte coronavirus: 1.920 morti sabato e i decessi che superano i 20 mila, sul numeratore della Johns Hopkins University. Adesso, gli Stati Uniti sono primi in tutte le classifiche di questa pandemia: avevano già il primato degli ammalati, ben oltre 500mila, quasi un terzo del totale mondiale; e ora hanno anche il record dei decessi, avendo superato l’Italia, dove però il numero dei morti ogni cento mila abitanti resta nettamente superiore: 32 contro 6.

Non era certo questo che intendeva Donald Trump, quando prometteva di “fare l’America di nuovo grande”. Ma il presidente ha in mente di “riaprire”, per rimettere in moto l’economia. E continua senza esitare a creare polemiche: stavolta, cerca di prendere due piccioni con una fava, cioè colpire la Cina e Joe Biden, il suo probabile rivale democratico nelle presidenziali, con un unico spot.

La mossa diventa, però, un boomerang: il messaggio della campagna di Trump attira l’attenzione dei media perché, per fare apparire Biden amico dei cinesi, spacciati a loro volta come untori, inanella errori e imprecisioni. La Cnn ne fa un accurato fact checking: Gary Locke, l’ambasciatore degli Usa a Pechino dal 2011 al ‘14, prima segretario al Commercio, appare un funzionario cinese – è un americano di origine asiatica -; si attribuiscono a Biden affermazioni fuori contesto e posizioni mai sostenute; e lo si accusa d’essere dalla parte dei cinesi, tacendo le recentissime parole di stima e amicizia di Trump per il presidente cinese Xi Jinping.

Il petardo dello spot si perde nel fragore delle notizie sul contagio. La Casa Bianca approva lo stato di calamità per il Wyoming: così, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, tutti e 50 gli Stati Usa si trovano in questa condizione. Ma nonostante i numeri da brivido, soprattutto a New York, dove i decessi restano molto alti, ma i ricoveri in ospedale diminuiscono, il dibattuto s’accende, sia su quando riaprire l’America, sia sui ritardi dell’Amministrazione nel rispondere: nelle ricostruzioni dei media, il primo allarme serio risale al 28 gennaio, una settimana dopo il primo caso di contagio negli Usa e sei settimana prima che Trump agisse.

Intanto, il capo della sanità federale, Jerome Adams, un afro-americano, è sotto attacco della sua stessa comunità per il modo in cui le ha chiesto di rispettare le linee guida per contenere il contagio, soprattutto di non fumare, non bere e non assumere droghe. Le parole da lui scelte sono considerate offensive da molti neri, mentre le minoranze gli contestano che l’epidemia sta colpendo più duramente neri e ispanici d’America – non è un fattore etnico, ma di condizioni di vita e d’igiene -. Adams stesso chiarisce: “Non c’è nulla di sbagliato” negli afro-americani, ma le disparità sociali sono alla base dell’elevato numero di contagi fra i neri; e spiega di avere usato parole a lui familiari, “con cui sono cresciuto”.

(Gpnews-Usa2020)



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