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I novantatré anni di Benedetto, il papa “europeista”

C’è una voce silente in questi giorni di crisi. O apparentemente tale. Una voce che forse avrebbe tanto da dirci sulla più profonda e radicale crisi che stiamo vivendo, quella di cui nessuno parla ma che forse spiega tante cose sulla stessa pandemia, almeno sul mondo che ha trovato e su quello che da essa forse nascerà. E che la fa diversa dalle tante altre epidemie del passato.

La crisi di cui parliamo è la crisi di senso, o dei valori. E quella voce silente appartiene a un vecchio e colto prelato, che ha percorso la sua carriera fino al sommo grado, poi si è dimesso, e oggi compie novantatré anni. Joseph Ratzinger, per otto lunghi anni papa col nome di Benedetto XVI (dal 2005 al 2013), vive appartato come sempre negli ultimi tempi: il pianoforte, i gatti e i libri, e forse qualche amico, a fargli compagnia. Di libri in verità, il pontefice emerito ne ha scritti tanti, più di ottanta. E poi i saggi, gli articoli, i discorsi. Forse quello che avrebbe da dirci, lo si trova tutto lì. C’è un nemico, invisibile come un virus e più potente ancora negli effetti, che Ratzinger, come studioso e come uomo di Chiesa, si è proposto di combattere nella sua vita: il relativismo, quel bacillo infettivo trasmesso alla nostra epoca dall’illuminismo e che si è talmente diffuso nel corpo vivo dall’Europa da assumere oggi la forma di una “dittatura”.

Esso si presenta come la Ragione che vuole estirpare la superstizione, e quindi quelle abitudini e quei comportamenti degli uomini che si sono sedimentati nei secoli e che considera ideologici e dogmatici. Senza accorgersi però che essa stessa finisce per farsi ideologia e dogma, intollerante e illiberale quanto altri mai. In particolare, è della tradizione e della nostra identità cristiana, cioè in poche parole del cristianesimo, che ci si vuole sbarazzare. Senza nemmeno concedergli quello spazio che a ogni “minoranza” organizzata la correctness odierna, un vero e proprio illuminismo di massa, pur pretende a parole di dare.

Benedetto XVI avrebbe sicuramente qualcosa da dire sull’Europa. Perché la crisi di senso, il nulla di senso che è il nichilismo (che in modo solo in apparenza paradossale si accompagna alla Ragione trionfante), è sì crisi della civiltà cristiana e del cristianesimo, che non si è saputo opporre fino in fondo all’illuminismo e anzi lo ha introiettato in buone dosi nel suo stesso seno. Ma è anche la crisi dell’Europa (o dell’Occidente), che da quella civiltà era nata e che aveva ottenuto i più alti risultati in virtù della perfetta sintesi da essa operata di fede e ragione, cioè di Gerusalemme, Atene e Roma. E che aveva fatto fiorire su questo terreno, come ci ha ricordato Marcello Pera nei suoi libri, le sue stesse libertà liberali, in una rigorosa distinzione di ciò che pertiene a Cesare e ciò che è invece di Dio.

È in quest’ottica che si può dire che Benedetto sia un vero “europeista”. Ed è in questo contesto che si inserì la sua nota battaglia contro l’esclusione delle “radici cristiane” dal preambolo della bozza, poi abortita, di Costituzione europea. E questo “europeismo”, che non a nulla a che vedere con quello attuale che forse non a caso versa in profonda crisi, ha per lui un padre, il patrono d’Europa: san Benedetto. Fu il santo di Norcia infatti che, proprio negli anni in cui lentamente si esauriva per una crisi interna e sistemica l’Impero Romano, creava quei suoi monasteri che avrebbero ricoperto la terra europea. E in cui la grande cultura razionalistica greca e romana veniva conservata e tramandata, e anche rielaborata dai teologi cristiani, in un processo che avrebbe poco alla volta “civilizzato” i “barbari” e creato la visione del mondo che ci ha fatto grandi.

Lì nasce l’Europa e da lì bisogna partire per rifondarla di nuovo, oggi che una crisi paragonabile a quella dell’Impero Romano sembra approssimarsi al capolinea. Non è un caso perciò che Ratzinger impose a sé il nome di Benedetto. Né che ha fatta sua l’idea del filosoto cattolico scozzese Alasdair MacIntyre (uno dei più radicali critici della modernità insieme al nostro Augusto del Noce): preso atto che la società si è secolarizzata e scristianizzata, e perciò è andata in crisi, che il cristianesimo non può che giocare la partita come minoranza nel nostro mondo, anche a noi tocca, come toccò a san Benedetto, creare piccoli centri di resistenza e da lì riannodare gli sparsi nodi della nostra cultura e preparare una nuova sintesi cristiana. Fin qui il pensiero di Ratzinger, a cui Giulio Meotti ha dedicato, in una felice sintesi, L’ultimo Papa d’Occidente?, un libro appena uscito per Liberilibro.

Si può essere d’accordo in tutto o in parte, o nemmeno un po’, con le tesi di questo papa teologo, ma non si può negare, si sia laici o cattolici, che pochi come lui hanno saputo interrogare con profondità e finezza intellettuale il nostro tempo.

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