Il 6 novembre di quest’anno si celebrano i cinquant’anni delle relazioni diplomatiche fra Italia e Cina, un anniversario al quale si arriva in una condizione quasi inedita: il rapporto con Pechino non è materia da specialisti, ma argomento del dibattito pubblico mainstream. I giorni scorsi sono stati segnati da dichiarazioni, generalmente identificate come filo-cinesi, di Alessandro Di Battista, una delle figure di maggior rilievo del Movimento 5 Stelle. La polarizzazione che ne ha fatto seguito è segno del dibattito che è ormai presente nel nostro Paese, che si caratterizza quasi come una alternativa binaria tra il fare o non fare affari con la Cina, in un contrasto di interessi tra ipotesi di rafforzamento delle relazioni logistiche e rischi strategici in ambito di telecomunicazioni. Come spesso accade, la realtà è più complessa e trova una risposta nell’esigenza di ragionare “con consapevolezza” sul rapporto politico ed economico fra Italia e Cina. Tale consapevolezza va fatta risalire alla comprensione delle dinamiche internazionali in atto a livello globale e regionale e, ancor di più, alla comprensione di quelli che sono i “fondamentali” del rapporto economico sull’asse Roma-Pechino o, meglio ancora, Milano-Shanghai/Guangzhou.
Riconoscere che la Cina è un attore globale di primo piano e che, dunque, non esistono più relazioni unicamente bilaterali è probabilmente il punto di partenza. Se la Cina è coinvolta in una corsa per il primato economico e tecnologico sul medio-lungo periodo con gli Stati Uniti è evidente che ogni nostra azione – che prima poteva avere valore unicamente bilaterale – verrà letta come una presa di posizione in questo contesto. Questa dinamica si è velocemente rafforzata a partire dal marzo 2018, quando – probabilmente non a caso – a distanza di poche settimane Xi Jinping ha completato il proprio processo di centralizzazione del potere e Trump ha lanciato una guerra commerciale con una forte enfasi sui prodotti tecnologici.
Differenze economiche si sono così rivestite di una veste ideologica e strategica segnando un solco che non si sa se mai e se quando si potrà ricomporre. Questo spiega anche perché nel 2017 la visita in Cina dell’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, in veste di unico capo di stato o di governo del G7 (tra l’altro, Presidente di turno) al Belt and Road Forum for International Cooperation sia passata generalmente in modo innocuo, mentre quella di Conte nel 2019 alla seconda edizione del forum – discutendo sostanzialmente degli stessi progetti logistici – abbia subìto una critica molto forte.
Certo, poche settimane prima era stato firmato il Memorandum of Understanding sulla Belt and Road Initiative, che però resta un documento che rappresenta un segnale di vicinanza politica, manifestata – seppure in modo diverso – già nel 2017. Lo stesso “sguardo strategico” del 2019 sarebbe stato probabilmente più critico sulla visita di due anni prima. Ciò che è cambiato, dunque, è che nel 2017 Xi Jinping era l’alfiere di una nuova globalizzazione – si pensi a Davos – e nel 2019 il leader senza limiti che aspira al primato globale. Bisogna tenerne conto.
Il secondo aspetto da prendere in considerazione è la natura della crescita internazionale della Cina: industriale e tecnologica. La domanda più importante dei prossimi anni sarà “chi fa che cosa?” e le politiche cinesi in ambito economico sono proprio rivolte al rafforzare la componente qualitativa e tecnologica della propria industria. È il caso del famoso piano “Made in China 2025”, oggi nominalmente messo da parte, ma confermato nelle sue linee essenziali. La reazione di Washington? Rafforzare l’industria (e l’occupazione) americana e ritardare l’avanzamento tecnologico cinese, a partire dalle telecomunicazioni, strategiche non tanto – o almeno non solo – per la sicurezza dei dati, quanto per l’esigenza di definire gli standard industriali del futuro.
L’Europa si trova nel mezzo di questo confronto, stretta tra legami politici con gli Stati Uniti e economici con la Cina, a partire dalla Germania. Per questo è così difficile prendere una decisione sul 5G: non si vuole sottrarsi dagli obblighi delle alleanze politiche, ma c’è il timore di restare esclusi o di adottare con ritardo innovazioni in grado di ridefinire la produzione nel prossimo futuro. Allo stesso tempo, l’avanzamento tecnologico cinese impone una forte attenzione dell’Unione Europea sul rafforzamento dell’industria continentale che, non a caso, ha cominciato a preoccuparsene limitando acquisizioni “predatorie” e ragionando sulla propria strategia industriale.
E l’Italia, allora? Come detto, bisogna soffermarsi sui fondamentali. L’export verso la Cina è fatto soprattutto di macchinari e apparecchiature avanzate, chimico-farmaceutico e tessile trainati dalla Lombardia. L’agroalimentare, per quanto di grande importanza per moltissime Pmi, ha un valore residuale per l’export totale, imponendo una forte attenzione sui settori di punta, coinvolti, però, dalle dinamiche di riequilibrio industriale a livello globale e europeo che possono determinare il successo o la crisi della base manifatturiera italiana. Una nota ulteriore va fatta al senso della relazione politica fra Italia e Cina, che non ha valore assoluto quanto piuttosto valore relativo dato che l’Italia è fiero membro del G7 e dei Paesi leader dell’Occidente. Allo stesso modo, il ruolo dell’Italia nell’interpretazione cinese non è soltanto quello di rappresentante di una cultura millenaria, ma piuttosto di soggetto con un peso economico e politico ben identificato su scala globale e regionale.
Ecco il punto cruciale: nella relazione con la Cina attore globale il valore dell’Italia è relativo al proprio peso industriale nelle catene del valore – soprattutto europee – e in quanto rappresentante di lungo corso dell’Occidente. La consapevolezza necessaria per intrattenere solide relazioni con Pechino senza passare per “traditori dell’Alleanza Atlantica” – potendo così visitare senza critiche in pompa magna la China International Import Expo di Shanghai (Emmanuel Macron) o incontrare i leader cinesi con grande regolarità (Angela Merkel) – è quella di pensarsi come un ingranaggio in un sistema occidentale di ingranaggi. Il proprio successo dipende quindi dal funzionamento del sistema, che oggi è attraversato da due fenomeni complementari: la ridefinizione della globalizzazione e l’abito ideologico attribuito alle differenze economiche. L’ambizione di poter fare da collante tra la deriva di due mondi non verrà soddisfatta dal richiamo all’amicizia passata, ma dal saper valorizzare – con consapevolezza – il proprio posizionamento politico e, ancor di più, economico con un forte accento industriale.