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Vi spiego il rapporto fra Cina e Usa (e gli errori di Trump). Parla Baucus

Per parlare di coronavirus e di rapporti tra Stati Uniti e Cina Formiche.net ha intervistato Max Baucus, ex ambasciatore statunitense in Cina dal 2014 al 2017 (gli anni della cooperazione tra i due Paesi sull’ebola) e precedentemente senatore del Montana per il Partito democratico per oltre 30 anni, dal 1978 al 2014. Attualmente è consigliere di Alibaba Group e siede nel consiglio di amministrazione di Ingram Micro, acquisita nel 2016 dal colosso cinese Hna Group.

Ambasciatore, che cosa pensa della definizione “virus cinese” utilizzata dal presidente Donald Trump e da altri esponenti della sua amministrazione? Pechino sostiene si tratti di razzismo.

Penso sia un errore ma non parlerei di razzismo. Quella del presidente Trump è una strategia per scaricare la colpa sostenendo che la Cina sia il problema, la ragione di tutte le difficoltà degli Stati Uniti, mentre la sua amministrazione sta facendo un incredibile lavoro per rispondere alla crisi. Ma è una strategia fallimentare.

Perché? Come possono uscire da questa pandemia Stati Uniti e Cina?

Penso che serva un’ampia cooperazione. Tuttavia, oggi nel mondo non c’è alcuna leadership in grado di coordinare gli aiuti e la ricerca, come dimostra l’abominevole decisione del presidente Trump sull’Organizzazione mondiale della sanità. Penso serva coordinamento tra Stati Uniti e Cina: c’è già, basta guarda le collaborazioni tra ricercatori dei due Paesi che superano la politica. Ma una cooperazione con Xi Jinping non risponde alla strategia del presidente deciso ad accusare la Cina per farsi rieleggere.

E se invece venisse eletto Joe Biden?

Le cose andrebbe sicuramente meglio. Lui è un realista, capisce la Cina, non è ingenuo, saprebbe affrontare la Cina con rispetto e saprebbe imporre un mutuo rispetto. 

Secondo lei Trump non conosce la Cina?

Non penso sia mai andato in Cina prima che diventasse presidente. Questo è uno dei grandi problemi della sua amministrazione: non ci sono molte persone che conoscono e capiscono la Cina, le sue aspirazioni ma anche le sue opportunità. Non c’è un’unica Cina: ci sono regioni e città, e sono diverse l’una dall’altra. L’amministrazione Trump, invece, sembra trattare quel Paese come se fosse tutto uguale.

Alla luce della sua esperienza da ambasciatore, che cosa pensa dell’ipotesi del coronavirus nato in un laboratorio di ricerca a Wuhan?

Non saprei, è una domanda che richiede indagini molto approfondite e fatti. Non so se il Covid-19 sia nato in laboratorio o in un wet market. La mia sensazione è nel caso in cui il virus fosse fuggito da un laboratorio si sarebbe trattato di un errore, non di un atto volontario. Ma non lo sappiamo.

Torniamo un attimo al rapporto tra Stati Uniti e Cina e alla cooperazione. Potrebbe realizzarsi sulla scia della corsa al vaccino?

È tragico che gli Stati Uniti e la Cina stiano litigando in questo momento di crisi. La corsa cinese rischia di produrre un vaccino non sicuro: servirebbe una cooperazione con agenzie statunitensi come la Food and drug administration. Ma sfortunatamente la risposta alla pandemia e questa corsa al vaccino stanno alimentando nazionalismo e isolazionismo: la salute dei propri cittadini è la preoccupazione numero uno, quella dei cittadini di altri Paesi viene dopo. E ciò impedisce che gli Stati collaborino.

Questo nazionalismo sta montando anche in Cina?

Il coronavirus sta creando nazionalismo in tutto il mondo, anche in Cina, dove sta crescendo anche la xenofobia verso gli Stati Uniti. E questo è un favore al presidente Xi Jinping, e certo non va in direzione delle riforme o di qualcosa di simile a un regime change. Il presidente Xi Jinping è in una posizione politica molto forte e non penso questo cambierà a breve. Qualcosa potrebbe cambiare in futuro visto che sono sempre di più i giovani del ceto medio, che sono meno inclini a credere ai dogma del Partito comunista. Questo è un cambiamento che però non avrebbe nulla a che fare con il coronavirus, bensì con la demografia.

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