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Oms. E se questa volta avesse ragione Trump?

Di Vittorino Ferla

Sicuri che sui soldi all’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, abbia torto Trump? La domanda è rivolta ai puri di cuore che oggi si scandalizzano per l’annuncio del presidente americano di non voler più finanziare l’agenzia dell’Onu.

Non c’è dubbio che Trump sia un personaggio poco credibile. Lo ricorda tutta la sua storia di smargiassate, di eccessi e di menzogne. The Donald è un populista strampalato che ha creato il caos nelle relazioni internazionali, cancellando con poche mosse il buonsenso di Obama: è uno dei motivi per cui in tanti sperano che il 2020 sia il suo ultimo anno alla Casa Bianca.

In più, sul caso Covid-19 è il capitano inetto che, rifiutati gli avvertimenti dei suoi consiglieri e chiusi gli occhi di fronte all’evidenza, ha lasciato la nave in preda alla tempesta. È molto probabile, pertanto, che, nell’attacco all’Oms, ci sia anche il calcolo politico di chi cerca di fuggire dalle proprie responsabilità.

E tuttavia – con buona pace dell’intellighenzia internazionale politicamente corretta – questa volta Trump ha diverse buone ragioni per sbraitare: ragioni che sono il frutto dei rapporti opachi tra la Cina e l’Oms. La Cina ha responsabilità evidenti sulla nascita dell’epidemia, sulla sua diffusione nel mondo e sui ritardi accumulati dagli altri paesi nel fronteggiarla.

Per la comunità scientifica – ripresa dalla stampa internazionale – è ormai abbastanza pacifico che il coronavirus sia nato nei wet market cinesi: molto probabilmente proprio in quelli di Wuhan, l’epicentro iniziale della pandemia. In quei mercati gli animali selvatici vengono ammassati, squartati vivi e macellati nella totale assenza di precauzioni igienico-sanitarie. Per questi motivi è avvenuto il salto di specie – spillover – che dal pipistrello all’animale selvatico venduto nel mercato fino all’uomo entrato in contatto con quell’animale ha dato il via al disastro biologico e sanitario nel quale siamo immersi in questi giorni.

Non si tratta di una novità: già nel 2002-2003 lo stesso processo si era innescato per la Sars, che, per fortuna, ebbe un impatto minore rispetto a quello odierno di Covid-19. Il governo cinese è pertanto responsabile di non aver interrotto le pratiche – pericolose per la salute umana – che si svolgono in quei mercati o di non averle sottoposte quantomeno a regole di comportamento restrittive a tutela della sicurezza.

Quando poi l’epidemia si è rapidamente diffusa la politica del governo cinese è stata quella di nascondere e minimizzare l’accaduto. Prima la polizia nazionale ha messo a tacere il medico Li Wenliang, l’oculista che per primo aveva dato l’allarme sul virus e che è morto ai primi di febbbraio per aver contratto l’infezione. Con lui sono stati tacitati tutti coloro che hanno cercato di avvertire sulla pericolosità della nuova malattia.

Successivamente, di fronte all’evidenza dei fatti, Pechino ha dovuto ammettere l’accaduto e ha cominciato, però, a trasmettere informazioni false sulla diffusione dell’epidemia. I dati forniti dalla Cina – appena 80 mila contagi e poco più di 3mila morti – risultano abbondantemente sottostimati, a parità di virulenza dell’infezione, rispetto a quelli resi noti dai paesi occidentali colpiti nelle settimane recenti.

È ormai opinione comune che la Cina abbia tenuto nascosta la vera stima dei decessi. Di recente, il calcolo informale delle urne cinerarie raccolte a Wuhan raccontano una storia molto diversa: molto probabilmente i decessi nei giorni del contagio arrivano a 50 mila. Ma la Cina non si è distinta soltanto nella contraffazione dei suoi dati. Ha anche adottato una strategia estrema di lotta al virus: un lockdown totale e pervasivo come soltanto un regime totalitario che non tiene in alcun conto la libertà dei suoi cittadini poteva fare. Però, sulle modalità di realizzazione di questo blocco sappiamo, ancora oggi, pochissimo. Così come restano del tutto inattendibili le ultime notizie diffuse da Pechino circa la fine dei contagi e la riapertura della città di Wuhan e della regione di Hubei.

Questa potente e opaca macchina totalitaria ha impedito, di conseguenza, la diffusione di notizie indispensabili a tutte le altre nazioni per affrontare l’arrivo della pandemia. Se Pechino, al netto dei ritardi e delle mollezze dei capi di governo occidentali, avesse avvertito per tempo gli altri stati con una comunicazione trasparente a livello globale i danni sarebbero stati ridotti e le autorità sanitarie nazionali avrebbero predisposto le contromisure necessarie con il giusto anticipo. Ma tutto ciò non è accaduto.

È accaduto, viceversa, che, fin da gennaio, l’Oms abbia lodato la Cina per aver affrontato con serietà e trasparenza la crisi sanitaria, esaltando le doti di leader di Xi Jinping. L’Organizzazione mondiale della sanità, così, non soltanto non ha mai espresso alcun biasimo ufficiale riguardo ai numerosi buchi neri della comunicazione di Pechino, ma ha fatto diventare quello cinese il modello per eccellenza, quello da adottare per via del suo acclarato successo. Al contrario, nessun plauso ufficiale è venuto dall’Oms per altri modelli di contrasto al virus – questi sì, di grande successo – come quello della Corea del Sud e di Taiwan.

Anzi, sui due paesi l’agenzia dell’Onu ha steso un velo di colpevole silenzio. Tutto ciò non deve stupire. La Cina è uno dei principali finanziatori dell’Oms. Il direttore dell’agenzia è Tedros Adhanom Ghebreyesus, in ottimi rapporti con la Cina fin da quando era ministro della Sanità dell’Etiopia e, successivamente, appoggiato da Pechino per la nomina al vertice dell’organizzazione, anche nel quadro della strategia egemonica esercitata da Pechino sui paesi africani. Né deve stupire che Taiwan sia fuori dai modelli sanitari di riferimento a livello mondiale: la piccola repubblica con capitale Taipei non fa parte dell’Oms proprio perché la Cina non la riconosce nemmeno come stato autonomo, considerandola un’isola ribelle di sua diretta pertinenza.

Muovendosi così, però, la burocrazia dell’Oms ha gestito malamente la crisi pandemica. Ritardi nella comunicazione del pericolo, suggerimenti sbagliati circa le norme di comportamento da adottare, indicazioni contraddittorie, ripensamenti e giravolte: in questo modo la confusione globale è stata massima. L’Italia è l’esempio più evidente di questa gestione burocratica e inefficiente.

Le autorità sanitarie italiane – dal ministero della Salute all’Istituto superiore di sanità fino al fantomatico Comitato tecnico-scientifico – già confuse per sé, si sono affidate totalmente ai dettami dell’Oms e, in qualche modo, se ne sono fatte scudo per coprire le proprie carenze strategiche e per togliersi dall’impaccio di decisioni scomode o impopolari.

Questo caos, in qualche modo ispirato dalla complicità con il concorrente asiatico, non ha lasciato indifferente la Casa Bianca. Trump è intervenuto a modo suo, da gradasso qual è. Ma si sa da sempre che gli americani di destra sono, per cultura, dei pistoleri. La Cina sta allargando il suo soft power in tutte le direzioni con una strategia silenziosa. Cerca di controllare sempre di più le agenzie dell’Onu inserendo i suoi fidati rappresentanti nelle posizioni di comando.

Assume il ruolo di benefattore antivirus regalando o, più spesso, vendendo mascherine e kit di test – spesso fallati, però – a destra e a manca in Europa. Detiene buona parte del debito dei paesi occidentali. È diventato negli anni il principale creditore dei paesi africani. In pratica, per dirla con Maurizio Molinari, il direttore della Stampa, l’Occidente è sotto assedio.

L’Italia dovrebbe saperne qualcosa, visto che – dall’arrivo dei Cinquestelle al potere – Pechino è diventato un interlocutore abituale del nostro governo. Il nostro paese rappresenta una delle principali crepe del mondo euroatlantico: e la Cina si infila senza difficoltà. Gli anticorpi democratici nell’opinione pubblica, anche a causa della sostanziale vocazione conformista della stampa italiana, sembrano ad oggi abbastanza scarsi.

La minaccia cinese è diventata urgente: Trump lo ha capito benissimo e la teme parecchio. Nelle prossime settimane la pandemia potrebbe diffondersi sempre di più nei paesi africani. Se ciò accadrà la crisi avrà proporzioni ancora più ampie e drammatiche di quelle già raggiunte in questi mesi. I paesi occidentali dovranno necessariamente intervenire per aiutare l’Africa, del tutto priva di sistemi sanitari in grado di fronteggiare l’emergenza.

Molto probabilmente dovranno anche riconsiderare se non annullare i debiti dei Paesi africani per metterli nelle condizioni di affrontare la tragedia in arrivo. Ma che cosa farà la Cina? Nell’editoriale del 16 aprile, il quotidiano francese Le Monde ricorda che Pechino è il principale creditore dei paesi africani e che, per collaborare davvero con le altre nazioni al fine di salvare il continente più povero del mondo, dovrebbe accettare di rinunciare a questo credito. Lo farà? La partita è aperta. Per adesso l’eccentrico Trump è l’unico che ha cominciato a giocarla.

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