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Le colpe della Cina, gli interessi degli Usa e il ruolo del Papa. L’analisi di Sisci

Di Francesco Sisci

In diversi Paesi come India, Brasile e Stati Uniti, singoli individui e organizzazioni stanno iniziando a chiedere trilioni di dollari alla Cina come compensazione per la diffusione dell’epidemia. L’accusa è semplice: Wuhan ospita il laboratorio più avanzato del Paese per la guerra batteriologica. Tra tutti i luoghi in Cina, la pandemia è scoppiata proprio a Wuhan, all’interno della provincia di Hubei, al centro del Paese. Di conseguenza, la spiegazione più semplice è che si sia verificato un incidente all’interno del laboratorio, che l’incidente non sia stato segnalato, ma anzi coperto dalle autorità, e che poi il virus si sia riversato nelle strade.

A supporto di tale ipotesi ci sono le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha sostenuto che la segnalazione sullo scoppio del virus da parte della Cina potrebbe essere stata poco chiara. I numeri riportati (circa 3mila morti e 80mila contagiati) appaiono meno credibili di giorno e in giorno. Lo scorso venerdì Pechino ha corretto le cifre, aumentando di circa il 30% le morti segnalate a Wuhan; una correzione che comunque non avvicina in alcun modo le vittime del virus in Cina rispetto al totale sbalorditivo di altri Paesi.

Come è possibile che l’Italia (con una popolazione inferiore alla provincia di Hubei, quattro volte meno densamente popolata e con un sistema sanitario molto più avanzato) conti oltre 20mila morti e registri un’ulteriore diffusione della malattia? Tra l’altro, pur avendo sicuramente commesso degli errori, il governo italiano ha reagito subito all’emergenza.

È ormai chiaro che in Cina il contagio sia andato avanti senza alcuna prevenzione per oltre due mesi, elemento che fa supporre che il numero sia molto più elevato rispetto a quanto riferito da Pechino. Per di più, accusano da diverse parti, l’eventuale sottostima e la possibile copertura dell’epidemia hanno indotto in errore molti Paesi che si sono trovati a dover affrontare il virus. È per questo che alcune organizzazioni ritengono che la Cina debba pagare un risarcimento per i gravi errori commessi. In qualche modo, anche l’Oms sarebbe complice dell’insabbiamento, ragion per cui gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro del sostegno finanziario all’organizzazione con sede a Ginevra.

Secondo il repubblicano Jim Banks, rappresentante per l’Indiana a Capitol Hill, Pechino dovrebbe cancellare il debito degli Stati Uniti (circa 1 trilione di dollari) e affrontare il tema delle tariffe commerciali in connessione col suo ruolo nella diffusione globale del Covid-19. La sua non è però l’unica richiesta. Un’associazione di avvocati indiani, l’All India Bar Association (Aiba), con il supporto del governo di Nuova Delhi e l’International council of jurist (Icj) ha presentato una denuncia al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite contro la Cina, chiedendo un importo non specificato in riparazione della diffusione globale del coronavirus.

L’avvocato americano Larry Klayman e il suo gruppo di pressione Freedom Watch hanno intentato una causa presso un tribunale federale del Texas chiedendo ben 20 trilioni di dollari di danni alla Cina, più del doppio del Pil cinese. Cause simili sono state intentate anche in Florida e Nevada. Come ha scritto Business Today, “fino al 1952 gli Stati Uniti assumevano in genere che l’immunità degli Stati stranieri fosse assoluta; quell’anno, però, il dipartimento di Stato prese una posizione diversa, affermando che avrebbe esaminato con più attenzione le richieste di immunità qualora il caso avesse riguardato una controversia commerciale. Ciò portò all’approvazione, nel 1976, del Foreign Sovereign Immunities Act (Fsia), uno statuto inteso, nelle parole di un tribunale federale, per proteggere gli Stati stranieri dagli oneri delle controversie”. La fattibilità legale di queste cause è dubbia, l’esecuzione di un’eventuale condanna risulterebbe ancora più difficile.

Non è però questo il punto. La questione è infatti politica: costruire un enorme caso, sollevato da più parti e con molte fonti, così da mettere la Cina all’angolo agli occhi dell’opinione pubblica globale e persino agli occhi di quella cinese. In molti Paesi le famiglie di medici e infermieri morti nell’emergenza stanno facendo causa a ospedali e ai responsabili sanitari per l’assenza nelle strutture di attrezzature idonee per affrontare la malattia. Le richieste di danni potrebbero ammontare a miliardi di dollari, e magari (come sostengono alcuni avvocati) potrebbero confluire nel conto finale dei danni chiesti alla Cina.

Per ora Pechino si fa beffa della accuse, sostenendo che un caso simile potrebbe essere sollevato contro gli Stati Uniti per la diffusione dell’Aids. I falchi americani rispondono che l’Aids non ha mai colpito l’economia mondiale in modo così massiccio e che, cosa ancor più importante, gli Usa non hanno mai nascosto informazioni rilevanti, a differenza di quanto la Cina ha fatto e continua a fare.

“Uno scontro a mani nude sarebbe un errore”, ha detto l’analista cinese Ben Lim. “La Repubblica popolare cinese non è la dinastia Qing e Xi Jinping non è Cixi (l’imperatrice vedova che guidò la Cina nei falliti tentativi di respingere gli occidentali oltre un secolo fa); quando arriverà l’attacco – ha aggiunto Lim – la Cina risponderà con più forza di una banda di pugili armati di spade, lance, scudi, preghiere e rituali magici”.

Gli hanno risposto i colleghi statunitensi: “Pechino parla sempre di contrattaccare, ma si rende conto di quanto ciò fomenti gli americani? Gli americani amano combattere anche se rischiano di perdere, mentre i cinesi non amano combattere e odiano perdere”. Effettivamente, la Cina potrebbe rivelarsi più fragile di altri Paesi. È molto più popolosa, ha una maggiore dipendenza dal commercio estero, un’enorme classe media le cui vite sono state sconvolte e un sistema politico troppo rigido per resistere in modo flessibile ai colpi.

D’altra parte, non si tratta solo di Pechino. Per gli Stati Uniti il tema non è se essere più duri o più morbidi (“tough or soft”), ma piuttosto cosa fare della Cina e, dal momento che questa rappresenta un problema globale, cosa fare del mondo. “La grandezza delle tragedie greche classiche risiede nel loro effetto umanizzante sullo spettatore o sul lettore: la catarsi, cioè la purificazione delle emozioni, metafora usata per la prima volta da Aristotele nella Poetica per descrivere gli effetti della vera tragedia sulla mente”, ha spiegato lo scrittore indiano MK Bhadrakumar.

Oggi, ha aggiunto, “non ci sono segnali che indichino che la tragedia che ha colpito gli Stati Uniti abbia avuto alcun effetto catartico sulle élite politiche del Paese”. In altre parole (quelle di John Pomfret sul Washington Post), nel corso della più grande pandemia della storia del mondo, né gli Stati Uniti né la Cina hanno offerto grande dimostrazione della capacità di essere leader globali. La domanda è dunque la seguente: dovremmo aspettarci un mondo senza leader? E in questo mondo ci sarà l’armonia, o il caos?

In un mondo di leader confusi dalla più grande pandemia della storia dell’umanità, può lo Spirito Santo essere una guida? Le parole leggere, eppure più profonde del Papa possono essere fonte d’ispirazione? Come ho scritto in History of Italy with Chinese characteristics, “dal 2013 c’è stato un costante aumento del ruolo del Vaticano e del Papa negli affari internazionali; ciò ha radici storiche profonde, il fallimento della leadership globale degli Stati Uniti, di ogni organizzazione internazionale e di altri Paesi; la Chiesa cattolica ha colmato un vuoto”. Eppure nel Medioevo, al culmine della sua influenza, il Papa non ha mai sostituito i poteri temporali, al massimo a contribuito a mediare tra loro. Può ora iniziare a riguadagnare quella capacità di mediazione per evitare almeno un prossimo scontro? Un recente saggio di padre Lorenzo Prezzi sembra indicare che la Santa Sede stia cominciando a valutare questa possibilità.

Le tensioni aumentano, ma fintanto che il virus continuerà a diffondersi nel mondo ci sarà una sorta di tregua. Negli Stati Uniti la rabbia nei confronti della Cina cresce di giorno in giorno, ma finora gli americani non hanno elaborato alcuna strategia per trattare con Pechino, né hanno idea di cosa fare.

Qualcosa però sta cambiando. Dopo esser sembrati distratti per settimane di fronte all’offensiva cinese sugli aiuti ai Paesi in difficoltà, gli Stati Uniti hanno reagito. Centinaia di milioni di donazioni hanno iniziato a diffondersi ovunque, accompagnate dagli esperti americani che affermano quanto sia giusto ricevere aiuti da Cina e Russia, ma anche quanto sia sbagliato che su questo si muova un’offensiva di propaganda.

Forse si dovrà aspettare l’esito delle elezioni presidenziali di novembre per capire i veri piani dell’America, ma è probabile che assisteremo alla fine del tendenziale isolazionismo americano. Anche nel caso in cui Donald Trump venga rieletto (come sembra oggi), gli Stati Uniti probabilmente non vorranno fare un ulteriore passo indietro dall’impegno attivo negli affari internazionali, e in particolare in quelli europei.

Al contrario, sembra che gli Usa si siano resi contro di non potersi permettere un ritiro se non vogliono perdere parte della propria indipendenza politica ed economica, sebbene sulle modalità del nuovo impegno americano rimangano non pochi dubbi. Nel frattempo, è lecito chiedersi se la Cina presenterà una nuova iniziativa politica per prevenire l’offensiva politica americana. Di solito, Pechino è stata piuttosto stata passiva, e quando ha cercato di essere proattiva, come con la Belt and Road Initiative (Bri), spesso non è riuscita a comprendere le sensibilità straniere e occidentali.

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