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Perché la telefonata Conte-Rouhani non aiuta l’Iran e neppure l’Italia

Di Emanuele Rossi e Gabriele Carrer

Nelle stesse ore in cui il Pentagono dava il via libera agli aiuti all’Italia, il presidente iraniano Hassan Rouhani telefonava al premier Giuseppe Conte per esprimere la propria solidarietà al popolo italiano colpito dal coronavirus. Lo riporta l’agenzia di stampa del regime di Teheran, Irna. 

Si è parlato di coronavirus, ma non solo. Tralasciando le opacità iraniane sui numeri di morti e contagiati che hanno fatto sì che il presidente Rouhani esprimesse solidarietà all’Italia, uno dei temi centrali del colloquio è stato il prestito da 5 miliardi da parte del Fondo monetario internazionale a Teheran. Inoltre, i due hanno parlato del patto nucleare Jcpoa e del meccanismo europeo Instex. Secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies, la telefonata tra i due leader “è parte di una più ampia campagna politica iraniani sui Paesi più vicini agli Stati Uniti per convincere Washington a concedere il prestito”. Tuttavia, avverte Pedde, “non ha alcuna possibilità di successo. Per due ragioni. La prima: gli Stati Uniti di Donald Trump non sembrano voler arretrare dalla linea di massima pressione. La seconda: la diplomazia italiana non è in questo momento in grado di esercitare un simile peso”.

“L’Italia ha da sempre un ruolo speciale nella politica estera iraniana” ha detto Rouhani, che oggi ha sentito il presidente russo Vladimir Putin su lotta contro il coronavirus e situazione in Siria. Il premier Conte, invece, stando a quanto riporta sempre l’Irna, ha espresso solidarietà al governo e al popolo iraniano, dicendo: “Comprendiamo pienamente i vostri problemi. Dato che stiamo affrontando lo stesso problema, accogliamo con favore lo scambio di esperienze nella lotta contro il coronavirus”. Inoltre, riporta sempre l’agenzia, Conte avrebbe detto che l’Italia è pronta a cooperare con l’Iran in materia di Jcpoa e Instex, sottolineato addirittura il ruolo costruttivo di Teheran nella pace e nella stabilità della regione e nella lotta al terrorismo.

La stringatissima nota di Palazzo Chigi (“Ha avuto luogo oggi una conversazione telefonica tra il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Hassan Rouhani. Tra i temi affrontati anche l’emergenza Covid-19”) non cita i temi Fmi e Jcpoa. E stride con la sfacciataggine delle agenzie iraniane, che certamente non rappresentano un assist alla credibilità occidentale dell’Italia in una fase in cui il dipartimento di Stato americano – oltre a esserci andato giù molto duro sull’Iran e pure sulla Siria di Bashar Al Assad alleata di Teheran – sta manifestando preoccupazione circa la collocazione geopolitica del nostro Paese dopo gli aiuti a dir poco interessati di Cina e Russia.

Veniamo ora alla questione Fmi. La possibilità di un prestito all’interno del quadro dell’Fmi è un elemento di interesse particolare attorno al dossier iraniano, perché mescola la situazione interna al paese alla crisi internazionale con gli Stati Uniti. La richiesta del governo Rouhani di accedere al soccorso del fondo per uscire dalla crisi prodotta dalla diffusione del SarsCoV2 – nella fase iniziale incontrollata e devastante – è un aspetto di scontro a Teheran. Accettare le clausole dettate dall’inclusione nel meccanismo comporta infatti rinunciare alla sovranità su certi capitoli di spesa.

Per esempio il taglio del cordone ombelicale con le realtà proxy che gli iraniani finanziano nella regione, vettori dell’obbiettivo di accrescere l’influenza imperiale regionale in nome di una sorta di nuova Persia. L’ingresso dell’Fmi nei conti della Repubblica islamica potrebbe comportare la rottura di questa catena di proiezione all’estero, che sostentata delle porzioni più conservatrici dei Pasdaran. Queste sono la reale opposizione interna a coloro che interpretano le posizioni pragmatiche del governo Rouhani.

Su tutto pesa la posizione americana: Washington infatti ha una quota di controllo relativo sul Fondo, e con il suo 16 percento riesce a indirizzare le decisioni del board. Attualmente, secondo varie indiscrezioni uscite per esempio sul Wall Street Journal, sembra che la volontà americana sia di proseguire sulla policy della massima pressione, e far in modo di bloccare la richiesta di aiuto iraniano. Gli Usa agiscono secondo una linea di pensiero che pressa Teheran a uscire dall’avventurismo e abbandonarlo per investire all’interno del paese e riformare il sistema – nel caso, cogliendo l’occasione dell’epidemia, chiedendo alla leadership di smettere di finanziare le milizie geopolitiche all’estero e spendere quei soldi per salvare le vite dei propri cittadini.

Ma secondo Pedde, “rischiamo entro la fine dell’anno un’escalation dopo che i due Paesi non sono riusciti a trovare un’intesa su una nuova piattaforma negoziale. Da parte  statunitense è mancata la capacità di realizzare un accordo prima delle elezioni iraniane (un terreno più facile per il presidente “moderato” Rouhani), da parte iraniana, invece, non c’è stata la disponibilità, per ragioni politiche interne, a lasciare passare il nuovo patto come una vittoria della massima pressione di Washington”. Inoltre è mancato un mediatore come fu l’Oman per il Jcpoa, aggiunge Pedde, che sottolinea come l’emergenza Covid-19 abbia fatto il resto superando il nuovo patto nucleare in cima alle priorità sia di Washington sia di Teheran.

Il contatto con il premier italiano Conte sul dossier potrebbe essere un tentativo di cercare sponda nei confronti degli Usa, ma Roma non sembra avere troppe carte in mano su questa partita. L’Italia, colpita dal virus, spera nel supporto americano per il recupero economico e difficilmente avrà spazi per far valore le istanze passategli da Teheran – sebbene lati dello schieramento politico di maggioranza si stiano contraddistinguendo via via per le letture anti-americaniste della situazione. Discorso simile vale per le questioni riguardanti il Jcpoa, l’accordo sul nucleare – di cui l’ingresso nell’Fmi potrebbe essere un sostituto idealistico. Roma non è tra i Paesi che hanno firmato l’intesa nel 2015, e al di là di un’equidistanza dettata dalla necessità di non spostare la propria posizione da quella dell’asse firmatario europeo, ha già dimostrato in passato di essere piuttosto allineata sulla traiettoria americana – almeno nei fatti, perché nella retorica politica permangono anche su questo fronte certe letture estemporanee da parte di elementi vicini nel governo e vicini a esso.


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