Scrive Panikkar: Abbiamo tanto sofferto per i fanatismi politici, religiosi e culturali, che siamo legittimamente assetati di una comprensione universale. Un tipico esempio di questa mentalità è la sindrome del villaggio globale. Per nobile che sia l’intenzione, rimane pur sempre il risultato della mentalità colonialista. Il colonialismo crede nella uniformità della cultura: alla fin fine non c’è che una civiltà e il mondo è ridotto a un “villaggio globale” (1).
Un vero pensatore è capace – al contempo – di volare verso l’alto e nel profondo. Panikkar ci offre, con queste parole, una grande occasione di (ri)pensamento nel giudizio storico.
Non basta più vedere la pluralità ma occorre vivere il pluralismo. Solo in questo caso, infatti, potremmo essere capaci di immaginare visioni calate nelle complessità di ciò-che-è, rispettandolole. L’ “ansia” colonialista, frutto di una mentalità universalizzante, nel senso di voler comprendere il mondo a partire da un unico punto di vista, è insidiosa.
Ricordate ? Abbiamo fatto lo stesso errore dopo la caduta del muro di Berlino quando immaginammo che la storia fosse finita e che, per sempre e ovunque, democrazia liberale e logiche di mercato avrebbero vinto e garantito benessere a tutti.
Ora che la storia è tornata (soltanto per chi crede che fosse finita), l’illusione di universalizzare una forma di organizzazione della convivenza umana, così come una forma di capitalismo, e la cultura e i miti sottostanti, ha mostrato – e mostra – tutti i suoi limiti strutturali, dell’essere illusione (appunto).
La cultura non può essere uniforme, non possiamo (fortunatamente) sfuggire al conflitto tra differenze. Ma, attenzione, quel conflitto non va negato ma trasformato, mediato, reso potenzialità per nuove possibilità. Senza mediazione, va da sé, i conflitti si radicalizzano, de-generano in scontro, rendono le differenze una occasione di distanza anziché di prossimità, cancellano le possibilità di incontro e di dialogo.
Siamo contro il villaggio globale non perché siamo contro quel fenomeno, peraltro antico, chiamato globalizzazione. È esattamente il contrario. Se dalla globalizzazione non si può tornare indietro perché essa appartiene al senso stesso dell’essere umani, ciò che va detto con forza è che bisogna (ri)pensare al profondo comune, e globale, della globalizzazione stessa.
Senz’anima comune e globale, la globalizzazione ci mostra la pluralità delle evidenze umane come dalle teche di un museo, pressoché inanimate, sterile passaggio di tutto ciò che siamo, spettatori di un film che non viviamo. Dobbiamo passare, e questa è la sfida a cui pensiamo nell’espressione “progetto di civiltà”, dalla pluralità delle evidenze al pluralismo delle esperienze.
Il villaggio globale ha un suo fascino, è indubbio. Esso, però, nella mentalità colonizzatrice è un obbligo che nulla ha a che fare con il vincolo dell’inter-in-dipendenza. Nel villaggio globale c’è una sorta di oltraggio all’autonomia insita in ogni differenza (parte-nel-tutto, casa del globale che si contestualizza, s’incarna) e una falsa libertà che non vive nel vincolo con l’altro, con la terra e con il cosmo ma che è slegata e auto-referenziale, eterodiretta.
Uscire da questa logica intrappolante significa guardare alla libertà come liberazione, più difficile da vivere ma piena, e mai compiuta. Guardando al mondo in cui siamo, un (ri)pensamento visionario non può più attendere.
NOTE
(1) Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia opera, Jaca Book, Milano 2010, p. 77
(Professore di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di Hostory of International Politics, Link Campus University)