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Il più potente antivirus? La solidarietà. Conversazione con monsignor Paglia

La crisi sanitaria ha intaccato l’intero pianeta, con metà della popolazione mondiale confinata all’interno della propria abitazione, e il rischio che ora può presentarsi è quello di una crisi economica globale. Tanti sono gli interrogativi che si pongono, e nonostante ciò pare troppo spesso che si continui a navigare a vista. La paura della morte, la debolezza dell’Europa, la vulnerabilità umana, il futuro che ci attende. E le risposte della Chiesa. Di tutto questo, Formiche.net ne ha parlato con l’arcivescovo monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita e gran cancelliere del Pontificio istituto Giovanni Paolo II.

Il coronavirus ci ha gettato in una situazione, anche economica, molto dura, dove i più deboli pagano un prezzo alto. Senza elemosina, molti senza fissa dimora rischiano la fame, come anche tanti lavoratori in nero che non hanno tutele. Alla crisi sanitaria si rischia di aggiungere anche quella sociale?

Non c’è dubbio che alla crisi sanitaria si aggiunga anche quella sociale. Per questo più volte in questi giorni ho sottolineato l’importanza di allargare la dimensione della solidarietà a tutto il campo, in tutti gli ambiti della vita personale e sociale. La solidarietà è l’unico orizzonte possibile che permetterà di superare la crisi e, a mio avviso, di avviare un futuro per tutti. È il tempo della solidarietà! Ossia del più potente antivirus. Dalla solidarietà discendono i provvedimenti. Non c’è dubbio, comunque, che si deve intervenire subito con chi non ha nulla. In maniera un po’ semplificata mi verrebbe da dire che se oggi non facciamo subito la moltiplicazione dei pani si moltiplicherà la rabbia. Mi pare che gli ultimi provvedimenti stiano camminando sulla via giusta. Penso che bisognerà accelerare il passo. E senza dubbio i politici debbono fare la loro parte, ma anche tutti i cittadini. E a me pare che sia da lodare e promuovere quel risveglio di solidarietà che si vede nel Paese. Ne usciremo, insieme.

Con i divieti stabiliti dal governo italiano anche le Messe sono state fermate, con il dispiacere di molti fedeli. Il Papa tuttavia ha invitato i sacerdoti a stare vicini ai poveri e i malati. Lei come vive questa situazione difficile?

Le dico subito, la chiusura delle chiese è stato un errore che per fortuna è stato immediatamente corretto. D’altra parte mi è sembrato responsabile evitare celebrazioni religiose pubbliche. Il rischio del contagio significherebbe irresponsabilità. La Chiesa ha seguito le norme delle autorità politiche e sanitarie. E comunque questa situazione richiede che ripensiamo anche il modo di vivere la nostra fede in questo tempo nel quale dobbiamo stare un po’ più distanti. Attenzione! Guai a trasformare l’indispensabile isolamento con la solitudine. Dobbiamo riscoprire già da ora la bellezza dei contatti, in qualsiasi modo. Dobbiamo riscoprire la preghiera a casa. Dobbiamo ascoltare assieme un brano del Vangelo. La nostra fede va rinnovata ogni giorno. Come la vivo io? Ho aumentato il tempo per la preghiera personale. E sono in contatto con tanti che mi scrivono mail, telefonano, inviano messaggi Whatsapp, perché sentono il bisogno di una presenza e di un sostegno. La Chiesa c’è, soprattutto nei momenti difficili, come ha mostrato il Papa venerdì 27 marzo sul sagrato della Basilica di San Pietro. Sa quale è a mio avviso la differenza tra il “prima” del coronavirus e l’oggi? Venerdì è stato letto il brano del Vangelo che racconta della paura dei discepoli per la tempesta che li coglie di sorpresa in barca. Le voglio dire che su quella barca ci siamo tutti: credenti e non credenti. È l’Italia, è il mondo. Mi sembra che lo stiamo comprendendo sempre di più e sempre meglio.

Lei ha più volte sostenuto che il tema della morte è sparito dal dibattito pubblico. Oggi, invece, è tornata prepotentemente al centro. Tanti italiani sono morti senza nemmeno l’estrema unzione, tra cui molti sacerdoti. Tutto questo, che sensazione le suscita?

Dalla “crisi” di oggi scaturisce un invito a rinnovare i nostri pensieri, la nostra cultura. È vero, tanti sono morti senza il conforto dei familiari a causa delle rigide misure sanitarie. Misure necessarie, certamente. Ma davvero “disumane” sul piano dei sentimenti. È necessario tornare a riflettere e a comprendere anche il senso della morte se vogliamo capire anche quello della vita. E capiremo che il Vangelo è di un enorme aiuto. Non dobbiamo avere paura di parlare della morte, di affrontare il tema della fragilità e di riflettere sul messaggio di speranza annunciato dal Vangelo. Gesù invita a superare la paura. Anche lui sulla Croce ha avuto paura e si è rivolto a Dio: Padre mio perché mi hai abbandonato? La paura è normale ma Gesù ci indica una strada diversa. E sono certo che quando questa emergenza finisce, la Chiesa e la società civile troveranno i modi per celebrare degnamente i defunti. Tutti i defunti. E sarà un momento di unione corale e, mi auguro, l’avvio di una nuova cultura della vita.

La sanità è dovunque messa a dura prova. Ci sono Paesi in cui si rischia, per la mancanza di posti letto, di lasciare gli anziani al loro destino. Boris Johnson inizialmente ha detto agli inglesi di abituarsi, e anche in Italia, pare che molti anziani siano morti in casa senza rientrare in alcuna statistica. Cosa ne pensa?

Penso che il tempo dell’abbandono degli altri, degli anziani, non funziona, non ha mai funzionato, non funzionerà mai. Abbiamo fatto degli errori enormi in questo campo. Ricordo don Oreste Benzi che diceva, amaramente: “Dio ha creato la famiglia, noi abbiamo creato gli istituti”. Oggi vediamo i nostri anziani morire da soli, senza il conforto di una presenza vicina, amica, di famiglia. C’è già qui una indicazione: gli anziani vanno tenuti a casa! E immediatamente dobbiamo intervenire per salvare gli anziani negli istituti. È un segno chiaro di come iniziamo, ora, a ricostruire il Paese: salvando i nostri anziani. Ed è un segno della disumanità di una società che non pensa a quanti anziani sono soli in casa. È necessaria una nuova cultura della cura vicendevole per un futuro migliore. E sono andato su tutte le furie quando ho sentito qualcuno porre l’età come unico e decisivo criterio di cura, di salvezza o di condanna che, ovviamente, relega gli anziani ad essere di troppo. La diffusione del virus è una grande lezione: l’umanità “difende” aprendosi alla vulnerabilità dell’altro, ci “difendiamo” proteggendo l’altro in pericolo di vita.

Molti hanno messo in luce la difficoltà dell’Europa e dell’Occidente, in questo spaccato storico, nel mettere in campo opere concrete di solidarietà e collaborazione. Qual è il suo giudizio?

La politica deve superare ogni forma di particolarismo nazionale e corporativo. In Italia e in Europa. La sfida che affrontiamo è una emergenza assoluta. Il vecchio mondo è finito e non torna più. Gli interessi di parte sono già da ora inghiottiti da un modello di sviluppo che ha fallito. È bastato un microrganismo per metterci tutti e tutto in ginocchio. La politica è per il futuro, non difendere un passato che scompare. Sarebbe importante che sin da ora iniziasse ad immaginare, anzi a far vivere, il futuro. Penso ad esempio al delicatissimo aspetto che riguarda la dimensione economica. Non è mia competenza entrare in questo campo, ma certamente non è possibile oggi chiudere il Paese e attendere di poterlo riaprire quando tutto sarà finalmente finito. Sarebbe una posizione non solo semplicistica, ma addirittura dissennata. Anche qui le diverse istituzioni sono chiamate ad una audacia creativa.

Il virus ci ricorda la nostra vulnerabilità, a cui nemmeno scienza e tecnica hanno una risposta esaustiva. Come fare tesoro di questo insegnamento?

La fragilità fa parte dell’essere persone umane! Non siamo onnipotenti e abbiamo riscoperto assieme che siamo legati gli uni agli altri, inseparabilmente. E questa è una grande lezione per oggi e per domani. Chi pensa di salvarsi da solo sbaglia. Ecco perché di fronte alla pandemia è indispensabile una fraternità. Questo deve dare indicazioni alla politica, alla cultura, alla società e anche alle nostre relazioni umane: sentiamo il bisogno di stringerci e stare vicini gli uni agli altri.

Come riusciremo ad uscire da questa crisi, a suo avviso, e una volta fuori, che futuro ci attende?

Lei poco fa mi chiedeva a proposito della sospensione delle celebrazioni religiose. Ma anche se le celebrazioni e le attività sono sospese, le porte delle chiese sono aperte sempre e ovunque. Quelle porte aperte ci parlano del futuro. Le porte del futuro non sono chiuse. Il papa invita tutti i cristiani, uomini e donne, preti e laici, ad essere di esempio nell’aiutare e anche nel pensare il futuro. Moltissimi credenti e non credenti si trovano oggi assieme accanto ai malati. Un’alleanza solidale tra tutti. Così dobbiamo sognare l’Italia di domani! Possiamo tenere aperto il Paese, senza fermarlo,  anzi creando già da ora i modi per continuare a curare chi ha bisogno, a produrre e a tessere relazioni, ripensando così un modello di sviluppo.



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