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Che sia davvero una Pasqua di resurrezione. L’augurio di mons. Santoro

La Pasqua ci chiama, anche e soprattutto in un tempo tristemente segnato dal coronavirus, a superare gli ostacoli portando lo sguardo al cielo. Per trovare nuova forza nell’affrontare i problemi che la crisi ci pone, invitandoci a una nuova visione dell’uomo, specialmente in ambito europeo. Una chiamata al cambiamento che a Taranto la si vive ormai da diversi anni, e che, se disattesa, rischierebbe di spingerci alla distruzione. Lo ha spiegato a Formiche.net monsignor Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace.

Eccellenza, ci apprestiamo a vivere una Pasqua molto particolare, nel silenzio delle nostre case e delle nostre chiese, che ricorda quello del Sepolcro il giorno della Resurrezione.  

È un lungo Sabato Santo che stiamo vivendo, a partire dallo scoppio della pandemia. È il segno della limitazione, che oggi è quella degli incontri e dei rapporti. L’annuncio della resurrezione è già dentro questo momento, di un amore grande come quello di Cristo che si dona totalmente, fino alla fine, senza riserve, in una pienezza che perdona anche chi lo ha ucciso. Che ci spalanca verso quello che il nostro cuore desidera, perché il nostro cuore de-sidera la resurrezione. Quando perdiamo dei parenti, delle persone care, ci diciamo: non è possibile che scompaiano, voglio rincontrarli. Nell’attesa del cuore dell’uomo il Signore, partecipando all’estremo momento della morte, dicendo sì a un amore più grande, lo rende possibile. “Egli è risuscitato dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea”, che è la nostra vita quotidiana sostenuta da un amore più grande.

La crisi sanitaria ha messo le nostre società con le spalle al muro. Siamo passati dal sentirci onnipotenti, verso il prossimo e verso il Creato, al vivere un sentimento di paura e di dolore.

La pandemia ha distrutto. Mi è stato chiesto: ma la fede cristiana come viene messa in crisi da quanto sta accadendo? Io dico: innanzitutto viene messa in crisi la fede nell’onnipotenza umana. Nella capacità della scienza di controllare tutto, unita all’economia e quindi alla finanza, nella pretesa di stabilire un ordine mondiale in cui tutto è calcolato. Questa visione è stata fortemente messa in crisi. Nel cuore di questa pretesa entra il virus, un nemico incontrollabile. La scienza deve fare tutto il suo compito, per venirne fuori, però ci viene insegnato realmente ad essere più umili. La scienza fa il suo servizio nel campo specifico, ma quando presume di essere la salvezza della vita viene smentita dalle circostanze.

Come fare per uscirne rinnovati, per trarre una lezione positiva da questa sofferenza?

Ieri mattina, Sabato Santo, sono stato al cimitero di Taranto a benedire i defunti, perché qui la visita ai cimiteri è molto sentita. Poi abbiamo mandato il gesto in streaming. In tantissimi ci hanno ringraziato, perché non potevano essere con i propri cari. In un cimitero vuoto l’annuncio della Parola di Cristo è la continuazione di quello che Gesù ha fatto, ribaltando quella pietra e annunciando un inizio nuovo della storia. Questo non elimina il virus, ma siamo noi ad essere diversi, dentro il virus. C’è una diversità nel cuore, una luce che ci accompagna e ci fa essere ancora più vicini alle persone che stanno soffrendo in terapia intensiva, alle loro famiglie, ai più poveri, alla gente in estrema difficoltà. C’è un cuore nuovo in tutto ciò che si fa.

Dalla crisi sanitaria si è scivolati a quella economica. Gli industriali chiedono la riapertura, i medici invitano alla calma. La politica cerca di mediare, ma nel frattempo molte persone restano senza pane. A Taranto, quello di coniugare lavoro e salute è un problema annoso.

A Taranto da tempo sentiamo questa difficoltà nel coniugare cura dell’ambiente, difesa della vita e della salute con la questione lavorativa. Questa circostanza, a Taranto e nel mondo intero, ci dice che bisogna cambiare qualcosa, nel piccolo e nel grande. Bisogna cambiare modello di sviluppo, come il Papa, o la Dottrina sociale della Chiesa, ci suggeriscono. Se l’uomo è al centro del nostro progetto avremo un futuro degno. Al centro non ci può essere il profitto, l’accumulazione, il consumo compulsivo come massimo della vita. L’emergenza presente ci chiede di difendere la vita e la salute come beni supremi. Prima di qualsiasi profitto delle imprese, questo è il punto: è una scelta prioritaria.

Che risposta dare allora alle difficoltà, quali sono le scelte da compiere?

Certo, poi ci si chiede: deve fermarsi tutto? L’indispensabile deve procedere. Ma al centro c’è la difesa della vita. Questo per le imprese. Ma ho la sensazione che la difficoltà dei poveri è appena cominciata, perché sono esaurite nelle famiglie le risorse che avevano per vivere. Stiamo provando a rispondere con gli interventi degli assistenti sociali, dei comuni, delle istituzioni. Con la Caritas, il Banco alimentare, con l’azione dei movimenti, stiamo provando a sostenere le difficoltà delle famiglie. Ma le risorse si consumano. Allora dobbiamo mettercela tutta nel venire incontro a chi ha più bisogno, è la priorità maggiore, la più urgente.

In Europa assistiamo a un balletto di interessi contrapposti, di fuochi incrociati, attacchi gratuiti. Ora sembra che sia stato raggiunto un primo compromesso, parziale, e si chiede di fare di più. Il coronavirus può mettere in crisi anche il progetto europeo?

Il coronavirus è l’opportunità che ha il progetto europeo di basarsi sulla giustizia, sulla difesa della persona, particolarmente delle fasce più deboli. Si costruisce un’unità europea a partire da una cultura che ha dei punti di riferimento importanti: la difesa della persona, della fragilità, della famiglia, delle relazioni. E del principio della sussidiarietà. L’Europa non deve sostituirsi ai vari paesi ma sussidiare, non deve comandare la politica ma venire incontro. Perché la politica e l’economica servono alla persona. Ci comportiamo come se la finanza e l’economia dei paesi strutturati dovessero difendere lo status quo, ma non c’è più uno status quo. C’è un cambiamento radicale. Quindi ciò che deve poter avvenire, con il contributo dei vari paesi, è questo passaggio da una cultura dell’accumulazione dei profitti a una cultura della partecipazione. Ma anche a un “disaccelerazione” della produzione come l’unico massimo dell’uomo, in risposta alla sfida posta dal virus. È il tempo di un cambiamento culturale, di una cultura della vita e della persona che ha una priorità rispetto a quella dei profitti e dell’accumulazione. Dalla crisi può venire o una distruzione o una nuova visione dell’Europa.

In questi giorni di isolamento e di dolore, in cui siamo chiamati al silenzio, troppo spesso anche le parole rischiano di essere pericolose, come si sottolineava in un editoriale del Corsera. Come fare per proteggerci dalla sofferenza, della conta quotidiana dei deceduti, con una parola che dia un senso a tutto questo, che ci doni conforto e coraggio?

Accogliendo questo messaggio che la Pasqua ci offre: l’inseparabilità della morte come offerta fino alla fine, dell’amore che va fino alla fine, della condivisione della sofferenza di tutti, particolarmente in questi giorni. È l’unione della grande sofferenza con il momento in cui il Signore spalanca le porte a una dimensione nuova della vita. In questo momento dobbiamo essere gli annunciatori di qualcosa di più. Al mantra che dice “tutto andrà bene” dobbiamo aggiungere le ragioni per cui ci può essere una Resurrezione anche di fronte a tante morti. Nell’esperienza dell’incontro dei primi discepoli con Gesù, lo hanno visto risorto, e toccato. Quindi hanno partecipato a quella vita. I credenti percepiscono la presenza di quella Resurrezione, qualcosa di diverso da tutto il resto. La si intravede nello sguardo della Madre di Dio, o del Cristo crocifisso. Dove c’è una pace che ci dice che c’è qualcosa di più del dolore e della morte.

Una speranza che si fa carne. 

È questa la speranza che portiamo, che incide anche dal punto di vista sociale. Come vescovi, la mia Commissione ha preparato il messaggio del primo maggio in cui diciamo che nulla sarà come prima, per il lavoro, per le famiglie, per chi è stremato. In questa grande difficoltà c’è l’annuncio di una speranza, di mettere al centro la persona, la comunità, i poveri illuminati e sostenuti dalla grazie del dono della Resurrezione e dalla nostra vicinanza e solidarietà.



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