Il problema centrale della conoscenza, in funzione del quale devono essere pensate tutte le articolazioni del sapere, rimane il problema dell’uomo (Massimo Mori, Morin, Pascal e la condition humaine in Giorgio Chiosso (ed.) Sperare nell’uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, SEI, Torino 2009, p. 124)
(…) il pensiero complesso è indispensabile per prendere in conto la complessità dei sistemi umani e sociali; che di esso vi è bisogno perché la complessità delle società è diventata planetaria e a sua volta la planetarizzazione è divenuta complessa. (Luciano Gallino, Edgar Morin e i problemi di un’educazione per la società-mondo in Giorgio Chiosso (ed.) Sperare nell’uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, SEI, Torino 2009, p. 96)
La crescente accelerazione del nostro implicarci reciproco, sempre più “globalizzato”, tra vicini e insieme tra lontani, ci porta tra le mani la possibilità/necessità di percepire come ogni nostro agire, ogni nostro pensare, ogni nostro sentire siano parti “danzanti” di un più ampio interagire, interpensare, intersentire (Manghi, 2004); la possibilità/necessità di riformare radicalmente le nostre più usuali abitudini di pensiero e i nostri paradigmi educativi (Bocchi, Ceruti, 2004) (Sergio Manghi, Educarci alla società-mondo in Giorgio Chiosso (ed.) Sperare nell’uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione educativa, SEI, Torino 2009, p. 109)
Concentrando il nostro sguardo sulle vicende del nostro presente senza situarle in una prospettiva lunga, ammonisce Morin, rischiamo di mancare l’appuntamento con «la questione storica fondamentale con la quale si sono confrontati tutti i Terrestri», ovvero con l’urgenza di cogliere in tutta la sua portata il nuovo che sta emergendo, letteralmente nascendo: il sorgere di un nuovo tipo di società, che per affermarsi nelle sue potenzialità civilizzatrici abbisogna con urgenza indifferibile di una coscienza planetaria, ovvero di una coscienza del pianeta come nuova patria e insieme matria, comunità di destino terrestre (Sergio Manghi, op. cit., p. 116)
Per vivere il destino planetario non si può prescindere dalla necessità di una educazione alla complessità, anzitutto (ri)legando cultura umanistica e cultura scientifica, lavorando a (ri)trovare il loro terreno comune. Così si esprime Morin: La prima (…) votata alla riflessione sul sapere ed alla integrazione personale delle conoscenze, è diventata come un mulino che, privato del grano delle acquisizioni scientifiche sul mondo e sulla vita, giri a vuoto; la seconda, privata della riflessività sui problemi generali e globali è priva di pensiero, e dunque diventa incapace di pensare se stessa e di pensare i problemi sociali e umani che essa stessa pone (1). Mori sottolinea che sapere scientifico e sapere umanistico, versioni contemporanee dei due esprits pascaliani, non possono essere contrapposti ma devono integrarsi in un’unica conoscenza complessa (2).
Il tema di fondo è che nessuna disciplina può includere e spiegare l’intera complessità dell’esperienza-di-realtà. E’ nell’essere trinitaria (uomo/terra/cosmo) che la realtà ci mette di fronte alla inter-in-dipendenza delle sue dinamiche, al rapporto tra le parti e il tutto, al suo essere “avvolta” nell’ (in)certezza e nell’(im)prevedibilità che prima di tutto vivono in noi, dato profondo delle nostre certezza e prevedibilità.
Scrive Gallino sulla “novità” del lavoro di Morin: Ciò che distingue nettamente l’opera di Morin da quella dei predecessori mi pare essere, per un verso (…) l’aver applicato all’indagine dei processi cognitivi, al fine di una loro naturalizzazione, e su larghissima scala, le acquisizioni più recenti – ovviamente al tempo in cui ne scriveva – della fisiologia del cervello, della cibernetica, dell’ecologia, dei sistemi autoriproducentisi. Per un altro verso, essa è caratterizzata dall’avere poi rivolto gli esiti di quell’indagine a uno spazio di portata cosmica, visto che abbraccia a un tempo il mondo della natura, l’essere umano come entità a un tempo biologica e spirituale, la struttura della società, la sfera delle idee, l’etica. Procedendo solo da ultimo, valendosi del sostegno di tale base, ad affrontare di petto i temi dell’educazione (3).
Il pensiero complesso, potremmo dire, è al contempo uno sguardo ampio e profondo. O l’educazione acquista questa prospettiva o è condannata a rimanere una sterile sommatoria di conoscenze specialistiche e separate, non dialoganti, in quello che Max Horkheimer chiamava il “caos dello specialismo”.
L’educazione alla complessità deve diventare un progetto di riforma della scuola fino all’università che, nella nostra logica, è parte del progetto di civiltà. A gradazioni diverse, l’intero impianto dell’educazione va (ri)pensato sapendo che la crescita dell’essere umano deve andare di pari passo con la consapevolezza della complessità e delle complessità del mondo nel quale egli si trova e si troverà a vivere da persona, da cittadino e nell’esercizio di qualsivoglia professione.
In particolare sull’università, è di particolare interesse una riforma che Gallino definisce epistemico-metodologico-organizzativa (4). Didattica, ricerca e terza missione devono aprirsi, istituendosi come “unicum trinitario, tri-unitario”, alla complessità e alla transdisciplinarità.
Perché la transdisciplinarità e la complessità sono particolarmente necessarie nel mondo di oggi e, presumibilmente, lo saranno sempre di più ? Così risponde Gallino: La transdisciplinarità appare richiesta dall’era planetaria, ove si intenda realmente promuovere una riforma dell’educazione volta a superare le ristrettezze degli specialismi, collegandoli e ibridandoli in un quadro sistemico di ampio respiro. Così come la nozione di complessità appare cruciale per sottrarsi alla pericolosa illusione di poter meccanizzare interamente il mondo (5).
La riforma dell’università è, a nostro avviso, uno dei nodi centrali sui quali lavorare per restituire sentimento alla ragione e ragione al sentimento nella globalità. Scrive Manghi, ragionando dentro la società-mondo (a-centrica), che ci troviamo di fronte alla inaudita, ancora impensata novità – al di là di qualsiasi banalizzazione pro-global o no-global – della macro-individualità sociale che questi processi stanno rapidamente facendo emergere (6). Ancora Manghi, riprendendo Morin, sottolinea la dialogica vivente di ordine, disordine e organizzazione, intrinsecamente imprevedibile negli esiti (…): «Non ci sono leggi della storia. L’unica legge è che ogni sviluppo comporta disorganizzazione e degradazione di ciò che l’ha preceduto. In ogni modo, non c’è evoluzione che non sia disorganizzatrice nel suo processo di trasformazione o metamorfosi. Non c’è progresso, ma un vero e proprio “doppio gioco” – una dialogica – tra progresso e regresso, civiltà e barbarie, complessità e distruzione, disorganizzazione e riorganizzazione». (Morin, 2001, trad. it. p. 206) (7).
Porre a base della riforma dell’università il pensiero complesso e l’approccio transdisciplinare serve il fine progettuale di alimentare coscienze, consapevolezze e competenze in grado di far maturare, in ogni studente tanto quanto in ogni docente, il bisogno (non a caso trinitario, tri-unitario) di tensioni progettuali, di volontà attive, di professionalità cooperativo/competitive. Perché, nota Manghi, anche la società-mondo va emergendo per grandi distruzioni, grandi azzardi e grandi slanci creativi, attraversando intere epoche di tragedia e insieme di innovazione (8).
Nel cambio di era, tempo della (com)presenza di grandi rischi e di grandi opportunità, l’università, nel riformarsi, ha la responsabilità di essere nella società-mondo, avendo la missione, come fase adulta del processo di educazione, di generare possibilità e di formare persone-cittadini-professionisti.
Una riforma dell’università, nel tempo che viviamo (cambio di era), deve tenere in considerazione l’apporto delle innovazioni tecnologiche come potenzialità in grado di rendere l’università una uni/pluri-versitas (unitas multiplex) di possibilità. La tri-unità dell’unicum didattica/ricerca/terza missione può realizzarsi anche attraverso tecnologie in grado non solo di rendere efficienti ciascuno dei tre ambiti ma, soprattutto, di legarli in un “comune” che è il loro senso profondo. Tecnologie, dunque, che possono unificare senza dover omologare.
Continueremo nella riflessione. Intanto, basti dire che l’educazione e la formazione vanno intese come educ-azione (educare all’azione) e come form-azione (formare all’azione). Il tema, in sostanza, è politico. O si guarda alla metamorfosi dell’agire politico come frontiera necessaria della riforma della scuola e dell’università nel quadro di un progetto di civiltà, o ci troveremo di fronte all’ennesima riforma settoriale che, nell’impatto con il prossimo imprevisto globale, mostrerà tutta la sua inutilità.
NOTE
(1) Luciano Gallino, op. cit., p. 97
(2) Massimo Mori, op. cit., p. 129
(3) Luciano Gallino, op. cit, pp. 98 e 99
(4) Luciano Gallino, op. cit., p. 102
(5) Luciano Gallino, op. cit., p. 103
(6) Sergio Manghi, op. cit., p. 112
(7) Sergio Manghi, op. cit., pp. 112 e 113
(8) Sergio Manghi, op. cit., p. 114
(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di History of International Relations, Link Campus University)