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Europa? La lezione (attualissima) di Giulio Andreotti da rileggere

Di Roberto Rotondo

Nelle svolte storiche per l’Europa il pragmatismo è indispensabile. Così Giulio Andreotti chiuse nel settembre del 2009 una lunga intervista per 30Giorni, la rivista internazionale che dirigeva, nella quale, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, volle ripercorrere il processo lampo che portò all’unificazione della Germania e il terremoto politico nei Paesi dell’Est Europa dopo l’Ottantanove. Oggi, a 30 anni di distanza da quel semestre di presidenza italiano della Comunità europea che accompagnò positivamente l’unificazione tedesca, ponendo le basi della nascita dell’Unione Europea a Maastricht nel 1992, i ricordi e le analisi di Giulio Andreotti, tra i protagonisti indiscussi di quella stagione, sono una lezione utile per affrontare il nostro presente, nel quale l’Unione Europea è chiamata a fare scelte coraggiose. Oggi come allora, usando le parole di Andreotti nell’intervista: “Qualche volta nella politica nazionale e internazionale si sbaglia proprio perché si perde di vista il fatto che il buon senso è ciò che dovrebbe guidare l’azione. Invece si vanno a cercare formule e motivazioni complesse, anche se dotte, perdendo di vista la linea centrale di quella via di sviluppo che si vuole percorrere”.

Quando cadde il Muro di Berlino il 9 novembre del 1989, Giulio Andreotti era Presidente del Consiglio dei Ministri e fu impegnato in misura notevole nel processo che in appena 329 giorni dal crollo del Muro, portò all’unificazione della Germania. L’Italia, nei giorni caldi, ebbe un peso politico notevole, anche perché deteneva la presidenza di turno della Comunità europea e della Csce. E Andreotti, che negli anni precedenti era stato tra coloro che avevano frenato sull’unificazione, ne era divenuto uno dei sostenitori: “Helmut Kohl deve dire grazie all’Italia e in particolare ad Andreotti se molte cose andarono a posto”, scrisse su Limes nel 2009 Gianni De Michelis, che all’epoca della caduta del Muro di Berlino era Ministro degli Esteri. Perché Andreotti cambiò idea? Rispose così nell’intervista a 30Giorni (della quale proponiamo alcuni passaggi, rinviando qui per chi volesse leggere l’integrale):

«Io non sono mai stato per partito preso contro la riunificazione tedesca, la cui base di principio si trovava già negli accordi di Helsinki del 1975. Semplicemente ciò che fino a poco tempo prima sarebbe stata un’avventura sconvolgente era diventata una strada praticabile. Certi passaggi derivano da fattori che inizialmente sembrano secondari, ma che poi, messi insieme, finiscono per condizionare fortemente la situazione. Ci fu un momento in cui avemmo la sensazione che lo status quo fosse modificabile, che il Muro che da quarant’anni divideva l’Est dall’Ovest non era così inattaccabile. Si percepiva che un’evoluzione positiva era possibile, anche se piena di difficoltà e interrogativi. Oggi agli storici tutto sembra chiaro, ma in quel momento era molto diverso».

Cosa poteva accadere se il gesto più simbolico della fine del bipolarismo, ovvero la caduta del Muro, fosse avvenuto qualche anno prima?

Non sono un profeta, ma aprire una discussione sulla unificazione nelle condizioni che c’erano prima della perestrojka avrebbe creato un enorme problema per l’Unione Sovietica. Essa sarebbe stata portata a suscitare chissà quali reazioni anche in altri Paesi, per paura che si potesse sollevare non soltanto il problema della riunificazione, ma anche tutto il problema tedesco del dopoguerra. Compreso quello delle frontiere a Est. La perestrojka diede ai diversi Paesi controllati una sorta di “libera uscita”, che consentì loro di organizzarsi a seconda della propria identità. E poiché la Germania dell’Est non aveva mai avuto una propria identità, era normale che si facesse la riunificazione.

Quali furono i fattori che avevano cambiato la situazione?

Ce ne furono diversi. Uno determinante fu l’introduzione da parte di Reagan e Bush del tema del rispetto dei diritti umani nei negoziati per la riduzione degli armamenti. Inoltre c’era stata la stolta campagna militare dell’Afghanistan, che aveva creato all’interno dell’Urss un motivo per dubitare del sistema.

Eppure, a rileggere alcune dichiarazioni dei leader politici fino a poche settimane prima di quel 9 novembre, pare non fosse assolutamente prevedibile ciò che stava per accadere. Uno per tutti, il presidente francese Mitterrand, che il 2 ottobre 1989 dice: “Quelli che parlano della riunificazione tedesca non capiscono niente. L’Unione Sovietica non l’accetterà mai. Sarebbe la morte del Patto di Varsavia. Chi può immaginarlo?”.

Oggi non è importante stabilire quanto era prevedibile o meno che di lì a breve sarebbe avvenuto il crollo del Muro. Non dovevamo indovinare i numeri della lotteria. Segnali che davano da pensare già c’erano stati: l’apertura della frontiera tra Ungheria ed Austria aveva immediatamente provocato la fuga di migliaia di tedeschi dalla Germania dell’Est alla Germania dell’Ovest. Io non ho particolari meriti o demeriti in questa vicenda, ma penso che dinnanzi a eventi di portata storica uno deve per prima cosa osservare bene e senza preconcetti, tenendo conto degli sviluppi possibili. Noi pensavamo di essere sulla strada giusta, ma eravamo anche molto preoccupati perché non c’era una formula algebrica che ci garantisse che tutto sarebbe andato per il meglio.

Cosa poteva succedere?

Poteva esserci uno scivolamento che avrebbe reso ingovernabile il processo in corso, oppure un irrigidimento che avrebbe reso gli ostacoli insuperabili, interrompendo il dialogo Est-Ovest e riportando indietro le lancette della storia.

Lei più volte dichiarò che era per una politica dei piccoli passi, ma gli eventi presero un’accelerazione inusuale…

La verità è che la storia non si programma. Certo, se fosse stato possibile disegnare una transizione graduale di tutti i cambiamenti politici a Est, si sarebbero evitati contraccolpi molto duri: dallo sfasciamento improvviso delle Repubbliche iugoslave federate alle manovre che fecero cadere Gorbaciov mandando a picco il suo progetto di autonomie differenziate all’interno dell’Unione Sovietica. Ma il cambiamento era stato atteso a lungo e nel momento in cui si stava realizzando gli eventi presero la mano. D’altronde era anche vero quello che Gorbaciov disse il 7 ottobre al presidente Honecker, che stava celebrando il quarantesimo anniversario della Repubblica democratica tedesca (Rdt): “Chi reagisce con ritardo è punito per tutta la vita”. Certo che viste dopo le cose sono chiare, ma allora c’erano delle intuizioni lecite sia in una direzione sia nell’altra.

Tra i momenti-chiave c’è, per gli studiosi e per chi l’ha vissuta, la sera del 18 novembre del 1989 a Parigi, nove giorni dopo lo smantellamento del Muro. Kohl è in difficoltà e lei, quasi a sorpresa, gli permette di uscire dall’impasse affermando che “l’Europa promuove e auspica la riunificazione della Germania”. Il vertice si conclude con un esplicito appoggio a Kohl, che dieci giorni dopo presenta al Parlamento di Bonn un progetto in dieci punti per la riunificazione. Fu davvero un momento di svolta?

Non so se può esistere un singolo momento di svolta. Era in generale un periodo in cui si sentiva la spinta a cambiare delle linee politiche, che erano diventate anche dei partiti presi, e mi accorgevo che una certa evoluzione si stava comunque per attuare. Quindi era meglio scendere con il paracadute piuttosto che senza.

L’appoggio alla riunificazione però non fu incondizionato: la Comunità europea accetta la riunificazione della Germania in tempi rapidi, ma nel contesto di un’accelerazione del processo di integrazione europea del gigante tedesco, con al centro del processo la moneta unica, l’euro. Di fatto si pongono le basi per Maastricht…

Ma già Kohl, il 2 novembre 1989, all’incontro bilaterale franco-tedesco, aveva detto a Mitterrand: “Bisogna fare l’Europa per far sì che la Germania non sia più un problema”. L’antidoto al timore, che alcuni potevano avere, che potesse scoppiare una terza guerra mondiale, o che economicamente l’Europa fosse germanizzata, fu vedere con esattezza il problema tedesco. Vero è che il primo nucleo europeo che era nato a Bruxelles nel 1948 era antitedesco, ma il tempo era passato. Inoltre Kohl e Genscher avevano impostato con grande fermezza il processo di riunione, inquadrandolo in un accentuato impegno di partecipazione alla Cee, di partecipazione a una aggiornata Alleanza atlantica e di un rafforzamento della Csce. Questi ultimi due anelli ci permisero di collegare il dialogo intertedesco al rapporto tra Europa e Stati Uniti e di camminare per il verso giusto.

La Cee, in particolare, sotto la presidenza italiana, riuscì a stare al passo degli avvenimenti che correvano. Una delle prime iniziative che vennero prese fu quella di far entrare nel Parlamento europeo i rappresentanti della Germania orientale…

Il fatto di avere la presidenza di turno nella Cee dava al nostro Paese un ruolo di interlocutore che altrimenti sarebbe stato presuntuoso assumere. E credo sia stato utilizzato piuttosto bene. Qualche forzatura alle procedure ci fu, visti i tempi brevi. Ma fu una politica di buon senso.

Non le dispiace di passare, nella vulgata, più per colui che nel 1984 disse di “amare tanto la Germania da volerne due”, piuttosto che essere annoverato tra coloro che maggiormente aiutarono l’unificazione dei tedeschi sotto il tetto europeo?

Diciamo che potevo risparmiarmi la frase, perché si prestò a speculazioni. Nell’84 bisognava essere realisti, non si poteva pensare di scavalcare facilmente le difficoltà storiche, etniche, culturali ed economiche che c’erano. Potevo risparmiarmela pure perché funzionò talmente bene, anche letterariamente, da diventare lo slogan di una certa posizione contraria all’unificazione e la cosa mi fu rimproverata più volte.

Scorrendo le sue dichiarazioni rese in quel periodo alla stampa, emerge la preoccupazione di non compromettere i processi di riforma che erano in corso a Est. Perché quest’attenzione?

Per prima cosa perché la nostra carta vincente è sempre stata quella di non essere provocatori. Mai abbiamo dato l’impressione di voler aggredire, anche in anni in cui la cortina di ferro non lasciava spazio a nessun dialogo. Poi avevo fiducia nella perestrojka. Pensavo che fosse l’unico modo per superare le enormi difficoltà che avevano i sovietici, difficoltà accentuate anche dal fatto che avevano spalancato le finestre. Chi oltrecortina era contrario alla perestrojka non agiva alla luce del sole ma faceva leva proprio sulle rivalità etniche e sulla pesante situazione economica, sulla scarsità dei generi alimentari. Invece io ho sempre pensato che l’Europa è molto più equilibrata se anche la Russia è una potenza economica.

Ma Gorbaciov percepiva che poteva trovare nella vostra linea politica una sponda per rafforzare la perestrojka? Quello che emerge è piuttosto che i russi speravano in una Germania unita e neutrale con un rapporto economico privilegiato con l’Urss…

Tra le ipotesi più papabili c’era anche l’asse Berlino-Mosca, e io dichiarai pubblicamente che gli assi non hanno mai portato fortuna a nessuno. Non so se fosse l’idea di Gorbaciov, se nel suo intimo prevalesse la paura del nuovo o il desiderio di esserne autore o coautore. Era una persona molto attenta, riflessiva, non era un impulsivo. Bisogna considerare, però, che era a sua volta condizionato da una sua opinione pubblica che non vedeva di buon occhio certi cambiamenti; anzi, molti ritenevano che concedere qualcosa al fronte opposto fosse eversivo. Penso che Gorbaciov fosse molto preoccupato, ma aveva grandi convinzioni costruttive e credo che nel suo cuore non abbia mai disarmato, anche quando l’Urss si dissolse con il colpo di Stato nel ’91.

Una domanda che le hanno posto tante volte: quanto influì papa Wojtyla nel terremoto politico oltrecortina di quegli anni?

Difficile dirlo. Forse è esagerato affermare che il Papa polacco abbia rappresentato l’inizio di tutti i capovolgimenti dell’Europa dell’Est, anche se cronologicamente è così. In realtà Giovanni Paolo II teneva sempre distinte le sue origini, a cui era molto legato, dalla sua missione universale di Pontefice. Certo, rispetto alla preparazione e alla formazione che avevano altre grandi personalità della Chiesa in quel momento, la sua esperienza passata lo metteva in una posizione privilegiata, che gli permetteva di vedere più lontano degli altri.

In Vaticano erano contenti, preoccupati o nervosi per il crollo del Muro e per ciò che ne stava seguendo?

Il Vaticano o non è mai nervoso o non mostra mai di esserlo. Guardano le cose sub specie aeternitatis, e a ragione, vista la loro storia millenaria. Ci furono prese di posizione e articoli de L’Osservatore Romano, ma non raccolsi in esclusiva preoccupazioni particolari.

Gli Stati Uniti premevano perché ci fosse un’accelerazione del processo di unificazione, oppure no?

Non era questo il loro atteggiamento. Avevamo la sensazione che gli Usa pensassero che fosse la strada giusta, però registrai anche da parte di alcuni influenti circoli di studi politici statunitensi una notevole diffidenza su tutta la vicenda, anche per le conseguenze che aveva sul piano globale. C’erano complicazioni psicologiche e pratiche anche per loro. Quindi il messaggio che arrivava era chiaro e da noi condiviso: è una scalinata che va salita gradino dopo gradino e senza salti.

Un elemento importante che lega l’Europa agli Usa era ed è l’Alleanza atlantica. Lei in quel periodo ribadì più volte che per procedere bene bisognava ridisegnare rapidamente una nuova Nato:

Cambiavano quelli che fino ad allora erano stati i suoi compiti. Sono stato ministro della Difesa per sette anni e non mi è mai capitato di vedere un progetto che non partisse dall’idea di difendersi da un attacco dall’Est.

Lei vedeva la Nato come un elemento positivo per assorbire la Germania dell’Est, ma nell’ottobre del 1990 rivelò l’esistenza di Gladio, una struttura militare dell’Alleanza atlantica, quasi a voler dire che l’Alleanza era ormai obsoleta. Perché?

C’era un certo contrasto tra una visione culturale, diciamo così, e una visione pratico-politica del problema. Nessuna delle due posizioni era bizzarra, ma in quel momento ci si trovava in una via di mezzo, che proprio “di mezzo” non era, perché c’era anche uno squilibrio tra le due posizioni. Comunque sia, la cosa che meno avrei immaginato era di venire polemicamente definito, anni dopo, un “paleoatlantico” da parte di qualche circolo che fu a lungo irriducibilmente e combattivamente ostile all’Alleanza, approvata dal Parlamento italiano non senza contrasti.

Il 1990 fu anche l’anno in cui Saddam invase il Kuwait, dando inizio alla crisi del Golfo. Un anno particolarmente problematico?

Se dovessi andare a cercare un periodo in cui le cose sono state molto semplici, farei fatica a trovarlo. Abbiamo sempre avuto una serie di difficoltà, ed è sempre stato vivo il contrasto tra le cose che si ritengono utili e necessarie, e quelle che si possono realizzare. Però quando in qualche momento storico la coscienza di questo contrasto è venuta meno, o ci sono state fughe in avanti inutili, oppure abbiamo battuto il passo, quando invece si poteva camminare.

Anche la costruzione politica dell’Europa sembra attualmente in un momento di stallo e l’euroscetticismo diventa sempre più consistente. Da cosa dipende?

Probabilmente l’ottimismo dei più convinti andava oltre quello che si poteva realisticamente realizzare fin qui. Se facciamo riferimento a quell’ottimismo si può anche essere delusi, o dispiaciuti. Rispetto a coloro che guardavano la realtà con più obiettività si può vedere che alcune cose importanti sono state realizzate, che la strada era ed è rimasta giusta.

Quali sono allora le condizioni per poter fare un ulteriore pezzo di cammino?

Non ho ricette particolari, l’essenziale è, da una parte, non assuefarsi allo status quo, dall’altra, non fare programmi tanto avveniristici quanto poco realizzabili. Anche oggi siamo in una fase di passaggio. E ogni passaggio si può fare sia con un passo cadenzato sia di corsa, dipende dalla situazione. Quel che davvero conta è dare alle intuizioni una base logica, che permetta loro di svilupparsi concretamente.

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