La crisi sanitaria legata al Covid-19 è nuova, per quanto non sia stata l’unica a cui il Paese abbia dovuto far fronte negli ultimi secoli. Una crisi sanitaria del passato di cui probabilmente alcuni oggi conservano ricordi sbiaditi fu quella del vaiolo del 1972, con la differenza sostanziale di conoscere il vaccino in quel caso. Allora il Paese, molto distante dall’illusione di avere superato qualsiasi debolezza sanitaria, si mise a disposizione delle autorità e in pochi mesi si risolse una crisi sanitaria pronta a diffondersi in tutta Europa.
Vi furono tre distinzioni dalla condizione geopolitica attuale: il riconoscimento di una frontiera unica di diffusione (quella balcanica nel caso in specie), la minore integrazione di merci e beni nella produzione distribuita, e il controllo comunicativo legato ai mezzi di comunicazione prevalentemente statali. I primi due aspetti paiono connessi ad elementi legislativo-economici, la cui imposizione per creare quelle condizioni creerebbe oggi danni economici enormi. La terza invece, di matrice comunicativa, risultò un elemento di rafforzamento per la catena di comando e controllo.
La comunicazione nelle procedure di gestione sanitaria non rappresenta mai un attivatore funzionale successivo, quanto piuttosto una parte integrante necessaria per rendere operativa la normativa. Il caso più celebre italiano in tal senso fu la campagna comunicativa a fine Ottocento operata sui maggiori quotidiani nazionali per la riforma in senso piramidale nel 1898 del sistema sanitario nazionale. Con la legge Crispi-Pagliani n. 5849, Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica, promulgata il 22 dicembre 1888, si operò un’integrazione nel generico accentramento amministrativo e la comunicazione risultò sempre non una fase successiva di implementazione ma parte dello sviluppo di ciascun decreto precedente (prestiti del 3% per il risanamento igienico dei piccoli comune, creazione Istituto Vaccinogeno dello Stato, e così via). La coscienza fu che la comunicazione ben gestita rappresentasse ex se un metodo di cultura sanitaria da diffondere in Italia.
Così anche per la gestione della crisi del vaiolo degli anni settanta, una malattia contagiosa di origine virale, fatale nel 30% dei casi, fu comunicato solo ciò che necessario, con i metodi più adatti alla società di allora. La situazione degli anni settanta era, per il comune cittadino, molto più vicina alla concezione delle campagne ottocentesche di igiene e pulizia medica che alle predisposizioni limitative della mobilità in uno scenario globalizzato. Nonostante ciò pare utile evidenziare che proprio l’Italia, già nell’Ottocento, in quelle aree che fino a qualche giorno fa erano li cuore della zona rossa dell’epidemia Covid-19, aveva costituito un modello antesignano delle metodologie europee; proprio ciò che oggi definiamo management sanitario per gestione epidemica, approntamento dei materiali necessari e creazione delle procedure di controllo emergenziale.
Nel 1809, il medico Luigi Sacco (1769-1836) di Varese aveva reso l’allora Regno d’Italia (dal 1805 divenuto tale, dopo essere stato Repubblica cisalpina e Repubblica italiana) il primo Paese in Europa per le misure più stringenti: “Io ho esteso nel Regno d’Italia la pratica di questo innesto assai più che non si è fatto negli altri stati di Europa. Io stesso ho vaccinato più di cinquecentomila individui ed altri novecentomila sono gl’innestati dai professori a ciò deputati”.
Una completa analisi del caso è stata svolta dal professore Alessandro Porro dell’Università di Brescia, docente di Storia della medicina. Anche in quel caso, quelle che oggi si definiscono fake news rappresentarono il maggiore ostacolo per l’operazione sanitaria. Numerosi pamphlet diffondevano il timore che la vaccinazione portasse ad assumere una riduzione dell’umanità fino all’assunzione dei tratti animali (nei disegni satirici si presentava la crescita delle corna nelle persone), come rilevato dal professor Porro. Si immagini che Sacco ricorse alla diffusione di una controinformazione affidandosi a un testo del vescovo di Goldstat: “Omelia sopra il Vangelo della XIII Domenica dopo la Pentecoste, in cui si parla dell’utile scoperta dell’innesto del Vajuolo vaccino recitata dal vescovo di Goldstat dalla tedesca nell’italiana lingua trasportata”.
Sacco comprese che la fonte del convincimento sia solo parzialmente il contenuto scientifico quanto piuttosto l’autorevolezza della fonte di diffusione dell’informazione. Giunse perciò ad utilizzare l’autorevole parere di un importante membro dell’autorità ecclesiastica per convincere della validità della proposta di vaccinazione. La campagna proseguì con risultati tangibili nel territorio di competenza, impiegando ogni metodo di comunicazione efficace: ovvero comunicazioni mediche “unite a una omelia scritta da un zelante vescovo su questo oggetto”. Fu chiaro fin da allora che la fonte del messaggio comunicato incida, seppure in presenza di confusione comunicativa, anche nei momenti di maggiore crisi per emergenza sanitaria.
La campagna di vaccinazioni raggiunse nel territorio un milione e cinquecentomila vaccinati nel 1809, migliaia di vite salvate da un metodo di comunicazione integrato nella progettazione del sistema di emergenza sanitaria. Un modello per l’intera Europa di contenimento emergenziale con un’operazione in cui la comunicazione svolse il ruolo di elemento trainante della campagna. Ciò che più risulta di interesse è che il vescovo di Goldstat non sia mai esistito.