Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

“Houston abbiamo un problema”. La leggenda dell’Apollo 13 raccontata da Malerba

“C’è sempre qualcosa che si può e si deve tentare, anche nelle situazioni più complicate”. È questa, cinquant’anni dopo, l’eredità dell’Apollo 13 secondo Franco Malerba, il primo italiano nello Spazio che, nel 1992 trascorse circa otto giorni oltre l’atmosfera, tutti a bordo dello Space Shuttle Atlantis per la missione STS-46, con il compito di effettuare l’esperimento Tss-1, anche noto come “satellite al guinzaglio”. Formiche.net lo ha intervistato per ricordare i cinquant’anni della missione Apollo 13, partita l’11 aprile del 1970 alla volta (la terza) della Luna. Non ci arrivò mai, visto che due giorni dopo il decollo il centro di controllo a terra ricevette un messaggio destinato a rimanere nella storia: “Houston abbiamo un problema”. Il problema era stata l’esplosione nel modulo di servizio che aveva danneggiato molti equipaggiamenti e ridotto notevolmente la disponibilità di energia elettrica e ossigeno. Inevitabile la decisione di tornare a Terra, utilizzando però il modulo che doveva servire per scendere sulla Luna (l’Aquarius). Non fu facile. Tra le altre cose, costretti a passare dietro la Luna per trovare la giusta orbita di rientro, i tre stabilirono il record di distanza umana dalla Terra (più di 400mila chilometri).

Cosa ci ha lasciato, oltre le celebri citazioni, l’Apollo 13?

Ci ha lasciato un messaggio fondamentale: “Failure is not an option”. La frase fu pronunciata dal flight director del programma di allora, Gene Krantz, e ancora oggi rappresenta ciò che rassicura di più gli astronauti durante le missioni spaziali: il collegamento diretto e costante con il mission control. È questo, tra le varie componenti di adrenalina, che permette di superare le difficoltà del volo, dal decollo all’assenza di peso. È una grande rassicurazione: il mission control metterà sempre tutte le energie possibili e immaginabili per trovare soluzioni utili (a volte creative) per aggirare ogni eventuale problema. D’altra parte, le missioni spaziali si confrontano sempre con la legge di Murphy: se qualcosa può andare storto, lo farà.

Come si vivono gli imprevisti a bordo di una navicella spaziale? Durante la sua missione, il cavo del Tss-1 non si srotolò come previsto.

Tutti gli imprevisti si vivono con una certa ansia. Fortunatamente, a differenza dell’equipaggio dell’Apollo 13, nel mio caso l’imprevisto non riguardava la sopravvivenza. In ogni caso, in una missione spaziale è tutto concatenato secondo una timeline molto precisa, come un pezzo musicale in cui tutti gli strumenti devono funzionare in sintonia. L’attenzione tecnica dell’equipaggio è dunque massima in ogni fase, tanto più che da essa dipendono i risultati di chi ha investito non solo risorse, ma anche parti importanti della propria carriera.

Gli astronauti dell’Apollo 13 rientrarono a Terra grazie al modulo ideato per l’allunaggio appositamente modificato per fronteggiare l’emergenza. Dà l’idea di una categoria (gli astronauti) che deve essere pronta a tutto; è così?

Sì, proprio per la già citata legge di Murphy. Nel corso della mia missione,c’era una rastrelliera su cui depositare una serie di filtri e obiettivi per uno speciale telescopio, da sistemare ognuno al suo posto in una specie di gommapiuma per consentire poi di ritrovarli. Capitò che non riuscivamo a trovare un anellino che serviva a collegare due dispositivi sul fotomoltiplicatore. Fortunatamente, essendo in assenza di peso, non occorreva trovare cose robuste e bastò un po’ di nastro isolante. È un piccolo esempio di come, spesso e volentieri, anche nello Spazio ci si trova a utilizzare qualcosa che non era previsto.

È cambiato qualcosa oggi?

Direi di no. Ancora oggi si viaggia in un piccolo universo, un sistema che, salvo le informazioni da terra, deve essere autosufficiente. Forse un giorno, tramite stampanti 3D, si potranno realizzare attrezzature ad hoc per ogni situazione.

Sembra un’esigenza forte in vista di una permanenza stabile sulla Luna.

Assolutamente sì. C’è una sorta di disciplina logistica per una futura missione sulla Luna che prevede che arrivi prima ciò che è necessario a creare le condizioni per operare: un certo numero di risorse affinché chi scenderà sulla superficie lunare trovi già qualcosa di disposto. Non credo che assisteremo a un replay dell’Apollo 11 dove non c’era nulla, né sapevano dove allunare. Ci sarà un lavoro preparatorio ancora più forte se mai riusciremo ad arrivare a Marte. Lì non potrà arrivare nulla dalla Terra in tempi ragionevoli. Per la Luna ci vogliono invece quattro o cinque giorni, distanza simile a quella della posta sul nostro Pianeta; insomma, ancora fattibile.

È vero che “il fallimento non è un’opzione” può essere una rassicurazione, ma chi parte per lo Spazio è consapevole della pericolosità del viaggio?

La consapevolezza c’è. Basti pensare che una delle cose che ci vengono chieste prima di partire è di scegliere tra i colleghi astronauti un “contingency officer”, cioè colui che, in caso di incidente, si occuperà di gestire tutte le situazioni più delicate, dal recupero del corpo ai funerali, fino a interfacciarsi con i media. Ricordo che io scelsi un astronauta con cui avevo viaggiato qualche volta a bordo dell’addestratore T-38 della Nasa, Steve Nagel. Mi disse: “This is a great honor”. Io invece gli avrei detto: “Mamma mia, perché hai scelto me?”. C’era insomma l’idea di una sorta di assicurazione sulla vita.

Letteralmente?

Sì. Mi piace ricordare Benito Pagnanelli, che all’epoca guidava la direzione Spazio di Assicurazioni generali. Si diede da fare perché avessi un’assicurazione sulla vita (che, devo ammettere, non mi costò nulla), utile soprattutto a evitare che la famiglia si trovasse in difficoltà finanziaria in caso di incidente. C’è un altro dettaglio, frutto peraltro della testimonianza di mia moglie. Le famiglie al momento del lancio non sono nella tribuna vip, ma al sicuro nel “bunker” del mission control. Questo succede per evitare che vengano aggrediti dai media in casi sfortunati, con una policy adottata dopo l’incidente del Challenger, quando le telecamere puntarono dritte sui genitori di Christa McAuliffe, uno dei membri dell’equipaggio.

Tornando all’Apollo 13, quale è l’eredità della missione?

Che c’è sempre qualcosa che si può e si deve tentare, anche nelle situazioni più complicate. Se c’è modo di guadagnare tempo, a meno di un incidente devastante, lo si deve fare, approfittandone per provare qualunque cosa sia utile ad affrontare l’emergenza.

Sembra un messaggio particolarmente attuale ai tempi del Covid-19.

Direi proprio di sì, considerando anche il contributo che può arrivare dallo Spazio per combattere il virus.

Ci spieghi meglio.

Ci sono tante idee su cui le agenzie spaziali stanno lavorando intensamente, dalla produzione di mascherine e sistemi di protezione che potrebbero essere mutuati dalle tute spaziali, alle procedure di sterilizzazione. In ambito di ricerca spaziale c’è una rigida disciplina per sterilizzare tutti gli oggetti destinati a corpi celesti diversi dalla Terra. Tecniche di sterilizzazione che potrebbero essere magari utili per sale chirurgiche o altre strutture sanitarie. D’altra parte, il mondo spaziale ha imparato tanto in passato da quello medico-sanitario.

×

Iscriviti alla newsletter