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Assalto a Huawei. Trump mette nel mirino la sussidiaria HiSilicon

La prossima settimana le tensioni sul 5G tra Stati Uniti e Cina aumenteranno. A lanciare l’avvertimento con una nota di martedì 28 aprile intitolata “Rule targeting Huawei’s core capabilities will provoke strong response from Beijing” è Eurasia Group, la società di consulenza guidata da Ian Bremmer. Nel mirino del dipartimento del Commercio di Washington è finita HiSilicon Technologies, azienda di semiconduttori interamente posseduta da Huawei, contro cui l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump sta conducendo una battaglia che ha due scopi. Il primo: contrastare la sua espansione in Occidente. Il secondo: mettere i bastoni fra le ruote in quella corsa alla leadership della tecnologia 5G cinese fondamentale – assieme al supporto economico e non solo del governo di Pechino – per potersi poi presentare sui mercati occidentali con prezzi supercompetitivi.

LA NUOVA NORMA

Secondo gli analisti di Eurasia Group, “la nuova norma statunitense potrebbe rappresentare l’azione più aggressiva nei confronti di una grande azienda tecnologica cinese, ancor più di quella del 2017 che ha quasi fatto fallire la rivale di Huawei, Zte”. Sarebbe una decisione dai risvolti molto pesanti per Huawei visto che “HiSilicon progetta tutti i principali semiconduttori di Huawei e assiste nella produzione di questi chip in tutto il mondo”, spiegano gli esperti.

Una stretta statunitense, che potrebbe colpire anche il gruppo leader Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc, uno dei principali fornitori di HiSilicon), rischia di lasciare Huawei senza semiconduttori entro 6-9 mesi vista la limitatezza delle alternative: “È probabile che la società non sarà in grado di soddisfare i contratti di 5G esistenti a livello nazionale, con conseguenze importanti per la strategia di lancio del 5G in Cina e per i principali clienti come China Mobile”, scrivo gli esperti di Eurasia Group.

“Inoltre, i grandi clienti di telecomunicazioni di Huawei in Europa dovranno valutare la loro vulnerabilità se le restrizioni impediranno all’azienda di costruire stazioni 5G all’avanguardia oltre la fine del 2020”. E ancora, scrivono: “da parte sua, Huawei probabilmente cercherebbe di dare la priorità alle sue consegne ai principali clienti cinese, alla ricerca di produttori alternativi per i suoi semiconduttori”.

LA REAZIONE CINESE…

Come reagirà Pechino, presa in mezzo tra la crescita del sentimento nazionalista e la guerra commerciale? Secondo Eurasia Group, la strada più probabile è quella di una risposta “disciplinata e proporzionata” (60% di possibilità), limitata al settore tecnologico prendendo di mira un piccolo numero di importanti aziende tecnologiche statunitensi, molto probabilmente quelle nella lista delle entità inaffidabili (UEL) spesso minacciata ma mai pubblicata. Pari possibilità (20% entrambe) sono date alla “risposta più ampia” (una rappresaglia oltre il mondo tecnologico con i boicottaggi fomentati anche dai media cinesi) e allo scenario chiamato “limitazioni”, il più grave, con l’idea di far naufragare la fase uno dell’accordo commerciale non rispettando le intese sulla protezione della proprietà intellettuale e sanzionando numerose società tecnologiche statunitensi. 

…E I TIMORI DI TAIWAN

A fare le spese di questa guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina rischia di essere Taiwan, visto che la norma colpirebbe in particolare la Tsmc. Da una parte c’è il colosso che chiede a Washington di evitare un’escalation, dall’altra c’è il presidente Tsai Ing-wen che non vede l’ora di capitalizzare il sostegno a Taiwan di Congresso, dipartimento di Stato e dipartimento della Difesa.

L’amministrazione Trump ha solo una carta da giocarsi per arrivare a un completo decoupling tra Huawei e Tsmc: aprire le porte degli Stati Uniti alla produzione. Il che avrebbe tre vantaggi: rafforzare il rapporto con Taiwan, intervenire a gamba tesa nella corsa di Huawei verso la leadership sul 5G e portare occupazione negli Stati Uniti.

Ma ci sono due controindicazioni: Tsmc dipende ancora molto dal mercato cinese e il costo della manodopera negli Stati Uniti ha già fatto arenare i precedenti colloqui per spostare la produzione oltre Pacifico.



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