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Il nuovo ordine mondiale dopo il Covid-19. Parola a Henry Kissinger

Di Dario Cristiani

Per dinamiche epocali, servono firme epocali. È ciò che deve avere pensato il Wall Street Journal, ospitando una riflessione densa, profonda e ad ampio raggio di Henry Kissinger sulla crisi del coronavirus e il futuro dell’ordine mondiale. Questa riflessione non è solo analisi; è anche un richiamo perentorio al proprio Paese, gli Stati Uniti, al non perdere di vista il dopo e, soprattutto, rendersi conto che l’America non può – e non deve – abdicare al ruolo che ha avuto in questi decenni di architrave dell’ordine internazionale liberale.

LA SURREALE PAURA DI UN PERICOLO INCIPIENTE E SENZA LOGICHE (RI)CONOSCIUTE

L’ex Segretario di Stato inizia la sua riflessione con un ricordo personale: giovane soldato, arruolato nell’84a Divisione di Fanteria ai tempi dell’offensiva delle Ardenne (The Battle of the Bulge), l’atmosfera di oggi gli ricorda il “senso di pericolo incipiente” che ha conosciuto all’epoca, i cui contorni sfuggono ad una definizione netta essendo intrinsecamente dinamici e sconosciuti. Senso di pericolo “rivolto non ad una persona in particolare, ma bensì capace di colpire a caso e in maniera devastante.”

Il richiamo a l’offensiva delle Ardenne è suggestivo, per svariati motivi. Quello fu uno degli atti conclusivi della trentennale guerra civile europea che consegnerà il mondo all’ordine bi-polare e, nelle società ad Ovest del muro, ad un’era di prosperità materiale mai vissuta prima. Di quel mondo bi-polare, Kissinger sarà sia chiaro – discusso e per certi aspetti controverso – protagonista, ma anche picconatore, visto che ne inizierà a scardinarne le fondamenta, a colpi di ping pong prima e di distensione poi.

Kissinger, in quegli anni, diede linfa e forma all’idea espressa da Nixon di non poter lasciare la Cina per sempre al di fuori della famiglia delle nazioni. A voler metter gli eventi di oggi in prospettiva storica, la centralità geo-economica che la Cina ha assunto in questi anni – e di cui, in un certo senso, la crisi del Coronavirus è uno dei prodotti – è figlia di quell’apertura. Allargando l’orizzonte storico ulteriormente, quello fu probabilmente l’ultimo sigillo alla globalizzazione completa delle relazioni internazionali: dinamica, iniziata nel 1905 e sublimata dalla Guerra Fredda e dalla crisi di Suez del 1956, e che ha sancito la fine della centralità europea rispetto al sistema internazionale.

Questo senso di pericolo, però, oggi si declina in un clima diverso: Kissinger nota, riflettendo sugli Stati Uniti, la mancanza di uno “scopo nazionale definitivo” e la presenza di un “Paese diviso”. In un contesto del genere, Kissinger considera la presenza di un governo efficiente e lungimirante come conditio sine qua non, necessaria ma non sufficiente, per gestire degli ostacoli “senza precedenti, per magnitudine e portata globale”. In un clima del genere allora “sostenere la fiducia del pubblico è cruciale per (preservare) la solidarietà sociale, le relazione tra un società e l’altra, e la pace e la stabilità internazionali.”

Qui, Kissinger mette sul tavolo tre temi fondamentali che, in un modo o nell’altro e a seconda di come verranno declinati e integrati tra loro, andranno a forgiare le caratteristiche del nuovo ordine mondiale post-Covid-19: la fiducia nelle nazioni di prevedere e gestire le calamità; la percezione sulle performance delle istituzioni che non dipende necessariamente da quanto bene esse abbiano realmente fatto; la necessità di evitare di recriminare sul passato, pratica considerata come ostacolo rispetto al lavoro di gestione del futuro.

LA MATERIALITÀ DELLE PERCEZIONI

Fiducia e futuro dipendono da queste percezioni: ed è su queste percezioni che la partita globale si sta giocando in questi momenti. Percezioni di efficienza. Percezioni di tempismo. Percezioni di solidarietà. Non necessariamente ciò che è reale, nei numeri e nelle dinamiche, sia ciò che poi nella percezione delle opinioni pubbliche e, per una sorta di proprietà transitiva la cui fluidità varia a seconda dei contesti, in coloro che prendono decisioni. In Italia questa dinamica l’abbiamo conosciuta bene: a guardare i numeri, il supporto europeo o americano probabilmente resta molto più solido rispetto a quello di altri Paesi che hanno – rumorosamente – aiutato l’Italia. Ma le incertezze nella tempistica; la debolezza e la stanchezza delle narrative; in qualche modo anche l’idea che questo supporto sia dovuto mentre quello di altri non lo sia necessariamente fa si che le percezioni di solidarietà siano diverse da come questa solidarietà si sia poi declinata nella realtà.

Lo stesso vale per l’efficienza: vi sono tantissime analisi di gestori di crisi col senno di poi che sottolineano carenze, ritardi e mancanze, in realtà con un focus particolare sulle carenze delle libere democrazie nel gestire questa crisi. Che, indubbiamente, ci sono state. Ma queste analisi dimenticano i fattori politici e sociali che certamente non vanno visti come delle giustificazioni, ma che – se presi in considerazione – danno un quadro più realistico del tipo di contesto decisionale in cui queste inefficienze sono avvenute, ad ogni latitudine e indipendentemente dai gradienti di democrazia e apertura dei vari Paesi: la necessità della Cina di coprire l’epidemia iniziale per paura della ricadute economiche e d’immagine; la difficoltà italiana nell’imporre zone rosse iniziali quando la minaccia era ancora poco visibile o di avere un’azione coerente in un contesto indebolito da anni di austerità e da vent’anni di federalismo troppo spesso à la carte; le incertezze americane iniziali, dettate da una presidenza che, se da un lato si convinceva del pericolo in arrivo, dall’altro continuava a ragionare in termini di necessità di tenere l’economia viva, vera cifra politica del primo mandato Trump e wild card per la sua rielezione. Tre esempi di tre Paesi diversissimi per culture politiche e dinamiche storiche nella gestione della res publica che, però, per motivi diversi, hanno necessitato di tempo per forgiare una risposta efficiente a questa crisi. Ed è sulla preparazione a gestire in futuro crisi del genere che parte della stabilità del sistema si gioca.

Kissinger ha iniziato questa sua riflessione partendo dall’offensiva delle Ardenne. Senza voler fare voli pindarici, questo richiamo è ulteriormente stimolante se visto anche dal punto di vista dell’efficienza e della preparazione alla risposta. Non sappiamo se ci sia un riferimento voluto in tale senso, ma non possiamo fare a meno di notare come l’offensiva delle Ardenne sia considerata come caso da manuale, nei libri di strategic warning, di fallimento dell’intelligence, al pari di Pearl Harbour. Di un fallimento dell’intelligence dove però i segnali di warning si accumulavano rispetto alla tentazione tedesca del colpo a sorpresa, segnali che venivano però sistematicamente ignorati. Alcuni analisti hanno apertamente parlato della crisi del coronavirus come di uno dei fallimenti peggiori, se non il peggiore, nella storia dell’intelligence americana. A riprendere la letteratura, questo non è necessariamente un problema nuovo: fior fiore di analisti hanno spiegato in passato come l’analisi strategica non sempre venga assorbita nelle scelte americane. Probabilmente, però, questa inefficienza va allargata e non riguarda solo gli americani, ma tutti i Paesi che si sono confrontanti – e si stanno confrontando – con questa minaccia. Al netto dei fattori delineati sopra che aiutano a comprendere le circostanze politiche legate alle titubanze iniziali nelle reazioni di molti leader – vi è stata un’incapacità di trasformare l’informazione disponibile in azione efficace sia per preoccupazioni di tipo politico, sociale ed economico, sia perché la natura di questo virus è largamente sfuggente e ferocemente subdola.

Questa logica delle percezioni è importante, anche e soprattutto, per capire la portata della sfida prossima venuta. È in questo dominio delle percezioni che la Cina sta cercando di forgiare il proprio messaggio: di efficienza; di tempismo; di solidarietà. In definitiva: di attore che può fornire beni pubblici internazionali nel vuoto lasciato da altri. Un tema che richiama la teoria della stabilità egemonica: passaggio su cui torneremo nelle conclusioni.

Con una narrazione supportata in maniera più coerente dai diversi livelli della propria piramide politica, dove le incertezze iniziali sono diluite nell’ondata dirompente di efficacia del modello di gestione successiva; nel know-how che i propri medici hanno costruito mentre il mondo si domandava che succedesse a Wuhan; nella prontezza nel suo offrire sostegno esterno. Quest’ultimo elemento è intimamente connesso anche nel cogliere questa crisi come opportunità per dare lustro al progetto della Belt and Road, come dimostrato dall’idea della Via della Seta sanitaria o l’epopea video degli aiuti via terra portati in Spagna. Ed è un punto, importante, per riprendere il discorso di Kissinger sulla necessità di guardare al futuro: la Bri, da progetto geo-economico e logistico, e sempre di più un progetto geo-culturale con una chiara visione di centralità politica della Cina rispetto al mondo. Centralità politica che si deve stabilizzare e definire entro il 2049, anno del centenario, ma che ha in sé un sapore di antico, e cioè un richiamo al sistema internazionale pre-europeo. Dove la Cina era fulcro economico essenziale e la cui centralità era, ed è ancora, rappresentata vivamente nella cartografia cinese. Non a caso, dire Cina significa dire Zhōngguó: Impero di Mezzo.

Ed è qui che la riflessione di Kissinger cambia scala: “Lo sforzo di (gestione della) crisi, per quanto vasto e necessario, non deve escludere l’urgente compito di avviare un’impresa parallela per il passaggio all’ordine post-coronavirus”. Kissinger è conscio di come la magnitudo politico-economica di tale crisi sarà destinata a rilasciare le proprie vibrazioni molto a lungo, anche più a lungo rispetto all’impatto del virus sulla nostra salute. L’onda lunga di tale evento può durare per generazioni. Kissinger riflette quindi apertamente sulla natura intrinsecamente globale di tale virus.

Con buona pace di un certo sovranismo dal respiro corto che vede nelle limitazioni di queste settimane la prova di come i confini siano necessari, da declinare addirittura in funzione di comunità il cui raggio d’azione si riduce fino a combaciare con quello del focolare domestico. Kissinger riconosce che “la risposta dei leader nel gestire tale problema è stata modulata su basi puramente nazionali”. Bene, o meglio, male: questo approccio è destinato a fallire. Per Kissinger “nessuno stato può affrontare ciò da solo”. Tanto meno gli Stati Uniti. L’ex Segretario di Stato richiama tutti ad un atto di responsabilità globale: “Affrontare le necessità del momento alla fine deve essere associato a una visione e un programma collaborativi globali. Se non possiamo fare entrambi insieme, affronteremo il peggio di ciascuno”.

PRESERVARE L’ORDINE LIBERALE

In questo senso, Kissinger offre uno sguardo alla storia, ma non come campo per recriminare sul passato, rischio da cui ha messo in guardia in precedenza, ma come ad un inventario da cui trarre soluzioni per il futuro. Quindi, lo sguardo alla storia serve per riprendere gli insegnamenti che i successi passati possono offrire come bussola per il domani. Le lezioni dello sviluppo del Piano Marshall o del Progetto Manhattan devono obbligare gli Stati Uniti a sobbarcarsi uno sforzo significativo in almeno tre ambiti.

Il primo: rafforzare la resilienza globale alle malattie infettive. I trionfi medici del passato e il progresso tecnologico hanno paradossalmente abbassato la nostra tenuta rispetto alla gestione di questi problemi. Ci siamo cosi “cullati in un pericoloso compiacimento”. Kissinger disegna quindi uno sforzo di sviluppo di nuove “tecniche e tecnologie per il controllo delle infezioni e vaccini commisurati tra le grandi popolazioni”. Tale sforzo ha natura transcalare: “Le città, gli stati e le regioni devono costantemente prepararsi a proteggere il loro popolo dalle pandemie attraverso lo stoccaggio, la pianificazione cooperativa e l’esplorazione alle frontiere della scienza”.

In secondo luogo, bisogna compiere un nuovo sforzo per “sanare le ferite per l’economia mondiale”. Certamente, I leader globali hanno imparato importanti lezioni dalla crisi finanziaria del 2008 ma l’attuale crisi economica ha una carica virale, per rimanere in tema, ben più significativa, complessa e multiforme, e quindi sfuggente. Kissinger mette in prospettiva storica la contrazione economica scatenata dal coronavirus, rimarcando come “nella sua velocità e scala globale, essa sia diversa da qualsiasi cosa mai conosciuta nella storia.” Le scelte che giustamente Kissinger definisce “necessarie” di sanità pubblica per gestione della crisi nel breve-termine, come l’allontanamento sociale e la chiusura di scuole e imprese, avranno effetti duraturi su questa sofferenza economia. I programmi di risposta, allora, devono cercare di mitigare “gli effetti dell’imminente caos sulle popolazioni più vulnerabili del mondo.”

Il terzo punto è il punto in cui si condensa la vera sfida globale per i prossimi decenni. Kissinger non è solo stato uno dei politici più importanti del secolo scorso, ma è pur sempre un politologo di formazione, con un sostanziale e cruciale substrato di storico, figura ibrida dominante nella scienza politica fino alle virate teoriche degli anni ’60 e ’70. Inevitabilmente, il riferimento al futuro riprende le radici sui cui il presente si è sostanziato nel corso degli ultimi decenni e secoli. Per Kissinger, quindi, gli Stati Uniti devono necessariamente “salvaguardare i principi dell’ordine mondiale liberale”. L’ordine moderno è nato e si è evoluto con comunità politiche fortificate per difendersi contro nemici esterni gestite da sovrani, a volte dispotici, a volte benevoli. Questa arbitrarietà si è andata diluendo in concomitanza con la rivoluzione – e la lezione – valoriale dell’Illuminismo, cesura storico-ideologica che ha permesso una rielaborazione di tale concetto di difesa della comunità: lo scopo dello stato legittimo si è quindi evoluto nel provvedere ai “bisogni fondamentali delle persone: sicurezza, ordine, benessere economico e giustizia” tutti elementi che gli individui, da soli, non sono in grado di proteggere. Kissinger offre un’altra bordata alle tentazioni sovraniste che animano tanti circoli al di qua e al di là dell’Atlantico, criticando il ritorno dell’evidente anacronismo della rinascita di una “città fortificata in un’epoca in cui la prosperità dipende dal commercio globale e dal movimento delle persone”.

Per Kissinger, le democrazie del mondo sono quindi chiamate a “difendere e sostenere i loro valori illuministici”. Il prezzo da pagare qualora ciò non avvenga è alto, anzi, altissimo: “La disgregazione del contratto sociale, sia a livello nazionale che internazionale”. In questo ambito, Kissinger suggerisce una metodologia di azione: la plurisecolare diatriba su legittimità e potere non può essere risolta mentre l’umanità cerca di superare la pestilenza di Covid-19. Il restrainment, che potremmo tradurre come parsimonia in questo caso, deve essere necessario da parte di tutti, sia nella politica interna che nella diplomazia internazionale.

IL DECLINO: NON INELUTTABILE, MA I CUI SINTOMI SONO PRESENTI

L’offensiva delle Ardenne che Kissinger richiama nell’incipit del suo articolo era uno degli ultimi attimi politici di un mondo destinato a sparire per far spazio ad un altro, in cui prosperità e rispetto della dignità umana crescevano di pari passo. Per Kissinger, la fase che stiamo vivendo rappresenta un “periodo epocale”. La sfida, per i leader globali, è quella di “gestire la crisi mentre si costruisce il futuro.” Il fallimento non è consentito perché “potrebbe incendiare il mondo”.

Quest’ultima nota va letta nel rischio insito nella disintegrazione dell’attuale ordine internazionale. La crisi causata dal Covid-19 rischia di essere per l’America ciò che è stata Suez per gli imperi europei fiaccati dai trenta anni di guerra civile europea e che hanno dominato il mondo per secoli, come ripetuto spesso da Nathalie Tocci nelle ultime settimane. Questa nota si lega quindi al richiamo fatto in precedenza alla teoria della stabilità egemonica, approccio teoricamente eclettico promosso da Robert Gilpin in cui gli Stati Uniti rappresentavano l’egemone benevolo fornitore di beni internazionali pubblici. Secondo Gilpin, la crisi degli anni ’70 aveva sancito l’inizio del declino dell’egemone benevolo, declino scritto nelle regole del sistema visto che i costi da affrontare e il comportamento dei free riders alla lunga erodono il dominio dell’egemone.

E se la crisi del Covid-19 fosse l’atto conclusivo di questo percorso iniziato negli anni ‘70? Kissinger, quando chiede agli Stati Uniti uno sforzo per rimodellare il sistema internazionale, chiede un colpo di reni per combattere questa dinamica di un declino che non è destino geopolitico ineluttabile – non ancora, almeno – anche se alcuni dei sintomi esistono e sono visibili. Rispetto a questa crisi, la Cina si è posta come fornitore globale di beni pubblici globali, dal materiale sanitario – di cui dispone un controllo significativo gestendo larga parte delle catene di produzione nel settore – al know-how per affrontare una pandemia che loro sono stati i primi ad affrontare. Questa dinamica si è dispiegata chiaramente a varie latitudini. L’Italia ne è stata uno dei teatri principali: le incertezze della leadership americana nella gestione globale di questo dramma ha dato spazio ad un’azione ad alta efficienza dal un punto di vista dei costi/benefici della Cina che ha si trovato sponde importanti in Italia, ma al tempo stesso ha avuto la prontezza di cogliere l’esistenza di crepe in cui insinuarsi.

Kissinger, nelle ultime occasioni pubbliche in cui ha avuto modo di parlare, ha messo in guardia dalle “conseguenze catastrofiche” di avere un sistema in cui Stati Uniti e Cina si scontrassero apertamente. La crisi del Covid-19 può accelerare una dinamica del genere: un egemone declinato contro un gigante demografico e geopolitico che trasforma una crisi interna potenzialmente dirompente in occasione per elargire beni pubblici internazionali che comunità impaurite da un virus al momento intelligibile necessitano per affrontare la minaccia. Questa è, probabilmente, la sfida a cui Kissinger si riferisce: sta ora al suo Paese, gli Stati Uniti, decidere come rispondere.


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