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Metodo – cammino. L’esperienza

Abstract di una ricerca più ampia, questo contributo si colloca a un bivio di una personale esperienza. In quanto persone, siamo tutti “terminali (ri)creativi” di apporti che ci vengono da chi ci ha preceduti e da chi ci seguirà.

Camminare, tracciare un cammino e percorrerlo, è il senso, il significato e il segno della nostra esperienza di persone. Ogni giorno, certo disordinatamente (ma non può esserci un “ordine di conoscenze” nell’avventura della conoscenza), si cerca di trovare contributi, passaggi capaci di aprire nuove vie verso ciò che chiamiamo “progetto di civiltà”, al quale chi scrive intende dedicarsi.

La proposta non nasce dall’ansia di essere tuttologi bensì, al contrario, dal bisogno di calarci nel mondo imprevedibile della conoscenza, di (con)dividerne l’avventura: questa è l’esperienza. Alcuni temi emergono, ed emergeranno, più di altri ma non è detto che siano quelli davvero importanti. Ogni momento storico, così come ogni momento della nostra vita, ci indica il bisogno di approfondire alcune cose anziché altre. L’agognata luce in fondo al tunnel, che per ingenua necessità tutti cerchiamo nei momenti di passaggio, in realtà non esiste; quella luce, infatti, è la (ri)costruzione (costruzione continua) del nostro cammino.

Tanti sono gli interrogativi che il mondo ci pone. Ed è bene concentrarci sulle domande anziché lasciarci vincere dalla fretta delle risposte. Queste ultime verranno, lo sappiamo, proprio se non smettiamo di avere dubbi, se non sfuggiamo ai problemi fondamentali e globali del nostro tempo.

È chiaro che ciascuno di noi è avvolto dai suoi bisogni imminenti che, sempre di più e per buona parte dell’umanità, coincidono con il bisogno di sopravvivenza. Questo ci porta, alcuni dicono inevitabilmente, a metterci al centro di qualsiasi ragionamento e a considerare il nostro fare come risolutivo per trovare la luce in fondo al tunnel. Ciò che è certo è che i rapporti di forza che generiamo, derivanti dai nostri interessi particolari, sono irrinunciabili.

Quando inventiamo qualcosa che ci sembra corrispondere alla soluzione dei nostri bisogni imminenti (si pensi alla democrazia e al processo che chiamiamo globalizzazione) siamo pronti ad assolutizzarlo e, nel momento in cui non ci garantisce più completamente, ad abbatterlo. Un “progetto di civiltà”, per come lo pensiamo, si colloca nel “terreno comune” tra gli opposti, là dove crediamo debba vivere l’esperienza.

Noi esseri umani, purtroppo, non facciamo tesoro delle complessità che ci appartengono. Vogliamo quella luce in fondo al tunnel nel qui-e-ora. Così facendo, nel momento in cui ci sentiamo onnipotenti di poter fare e disfare, tradiamo la nostra natura, linearizziamo il pensiero e incattiviamo il conflitto. E rinunciamo alle infinite possibilità che vivono nelle nostre potenzialità. Ci sembra, per chiudere questo testo, che non poniamo limiti alla nostra capacità distruttiva, volentieri dimenticando che siamo anche meravigliose, e originali, incarnazioni di progettualità.

(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di History of International Politics, Link Campus University)


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