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La Nato e le nuove guerre. Così l’Alleanza si adatta al futuro

Di Stefano Marcuzzi

La Nato è la più forte e longeva alleanza militare della storia. Istituita nel 1949 come coalizione dei 12 principali Paesi occidentali in chiave anti-sovietica, si è negli anni ampliata fino a includere trenta Paesi membri in nord-America ed Europa e 41 partner in tutto il mondo. Altrettanto importante, anche se più complesso e sfaccettato del processo di allargamento politico-territoriale, è stato l’adattamento strategico resosi necessario per mantenere l’Alleanza al passo con i tempi e in grado di rispondere alle nuove sfide alla sicurezza mondiale emerse in anni recenti, molto diverse da quella originaria a cui la Nato si contrapponeva.

Durante la Guerra fredda, il paradigma della sicurezza mondiale si fondava su un confronto bipolare diretto fra le due superpotenze, improntato alla reciproca deterrenza atomica, e su una competizione periferica che “tollerava” una serie ampia di conflitti, spesso “per procura”, limitati nel tempo e nello spazio e concentrati nel cosiddetto Terzo mondo. In tale contesto era centrale il ruolo degli Stati, non solo delle due superpotenze ma anche degli organismi multinazionali come l’Onu, la Nato, e il suo contraltare sovietico, il Patto di Varsavia, nel gestire i rapporti geopolitici e garantire un sostanziale equilibrio. Dopo la caduta del Muro, la natura stessa dello Stato moderno ha subìto – e sta ancora subendo – un’evoluzione sfaccettata e largamente inattesa, che ne ha messo in crisi il ruolo tradizionale di attore geopolitico.

La fine del sistema bipolare ha proiettato i cosiddetti Stati-satellite in una dimensione nuova caratterizzata da maggiore instabilità interna politica, sociale, ed economica: una crescente aspirazione indipendentista di minoranze sotto-rappresentate si è accompagnata alla crisi di regimi autocratici e al superamento dei confini tradizionali tracciati in epoca coloniale, con conseguenti guerre intra-statali lungo binari etnici, religiosi e ideologici. Nei soli anni Novanta i conflitti civili sono quadruplicati rispetto ai cento anni precedenti, concentrati in particolare in paesi in via di sviluppo. Nel caso della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo, la Nato intervenne con successo (Operazioni Deliberate Force, 1995, e Allied Force, 1999) per impedire episodi di pulizia etnica.

Alle crisi regionali post-Guerra fredda si è sovrapposta una crisi dello stato weberiano che ha coinvolto l’Occidente stesso, e che origina in non piccola parte da uno dei grandi successi del modello occidentale, ovvero la globalizzazione. Accanto a innegabili vantaggi, la globalizzazione ha comportato – forse inevitabilmente – il progressivo sfaldamento dello jus publicum europaeum, su cui si basava il diritto internazionale fin dalla Pace di Westfalia del 1648. Quest’ultima aveva non solo regolamentato i rapporti fra i nuovi Stati-nazione, ma aveva sancito una precisa distinzione fra guerra e pace, fra combattenti legittimi (hostes) e non-combattenti. Stemperando le differenze nazionali, e favorendo lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie che rafforzano il ruolo dell’individuo rispetto al potere statale, la globalizzazione post-Guerra fredda ha accelerato il declino della forma-Stato come epicentro del concetto di sovranità, erodendo la governance internazionale e aprendo la strada a un sistema più complesso di promotori, gestori e fruitori di sicurezza (o, al contrario, di insicurezza), che si sono affiancati alle forze armate statali: gruppi terroristici, organizzazioni criminali transnazionali, eserciti private ecc.

A sua volta, questo ha portato con sé una serie di “asimmetrie”: in obiettivi (che oggi sono meno connessi al paradigma del confronto fra Stati nazionali); in tempistiche (perché le nuove guerre tendono a essere senza un vero inizio e senza una vera fine); in protagonisti (perché coinvolgono attori di svariata natura); in tattiche utilizzate (perché vengono combattute con una mescolanza di tattiche tradizionali e innovative, e ad erodere la differenza fra combattenti e non combattenti, fra guerra e pace); e in spazio (poiché viene meno la distinzione tra “fronte di guerra” e “fronte interno”, tra spazio fisico e spazio virtuale).

Nulla di tutto questo è veramente “nuovo”, beninteso. La guerra è sempre stata una somma di asimmetrie, in cui la parte sulla carta più debole cercava mezzi alternativi per contrastare la parte più forte. Le guerre civili, il ricorso a eserciti privati e il terrorismo non sono realtà del nuovo millennio. È però innovativo il fatto che queste forme di conflitto siano diventate più diffuse rispetto a quelle “lineari”, e il fatto che si svolgano su scala globale – basti pensare alla sfida posta dal terrorismo di stampo jihadista, divenuta prominente dopo l’11 settembre 2001. Tali sfide mettevano in primo piano per la Nato l’esigenza di garantire non più soltanto la sicurezza dei propri Stati membri, ma anche la sicurezza umana delle popolazioni alleate, e di quelle più esposte a implosioni statuali/regionali che creano le condizioni per l’emergere di gruppi jihadisti e di traffici illeciti come il contrabbando di armi e droga e la tratta di esseri umani.

È interessante notare come l’unica attivazione dell’art. 5 di mutuo soccorso fra alleati Nato sia avvenuta in occasione dell’attacco terroristico dell’11 settembre, ovvero nell’ambito della “guerra globale al terrore”, non in risposta a sfide tradizionali. Questo portò la Nato a rinnovare il suo concetto strategico nel 2010, e a impegnarsi in teatri come l’Afghanistan (missioni Isaf e poi Resolute Support, 2003-2020) e l’Iraq (Nato Training Mission, 2004-in corso) che sembravano preludere a un nuovo modello di intervento, orientato a tecniche di contro-insorgenza e contro-terrorismo, o in azioni marittime, come l’Operazione active endeavour nel Mediterraneo (2001-2016) e l’Operazione ocean shield contro la pirateria nel Golfo di Aden (2009-2016), più da gendarmeria militare che da Alleanza militare. Nel 2014, tuttavia, l’intervento russo in Ucraina e la contemporanea ascesa dello Stato islamico in Siria e Iraq complicarono ulteriormente lo scenario della sicurezza globale.

L’attacco russo all’Ucraina (Donbass e Crimea) fu l’ultimo e il più massiccio di una serie di aggressioni a danno di vecchi stati-satelliti dell’Urss (Estonia nel 2006 e Georgia nel 2008) finalizzate a ristabilire una tangibile zona di influenza russa dopo un quindicennio in cui Mosca era apparsa ai margini della politica mondiale. Percepita come espansionista dall’Occidente, dal punto di vista russo la politica estera voluta da Vladimir Putin è vista come “reattiva” rispetto a un imperialismo occidentale che ha portato all’espansione della Nato in paesi dell’ex Patto di Varsavia (come Polonia, Ungheria e Paesi Baltici) e addirittura nei Balcani. Impossibilitata ad aggredire a viso aperto la Nato, la Russia ha fatto ricorso a quella che il capo di Stato maggiore Valery Gerasimov ha definito nel 2014 guerra “non-lineare”. In Occidente, essa venne ribattezzata “guerra ibrida”.

Nonostante le definizioni della stessa si siano moltiplicate fino al parossismo, il fulcro fondamentale di tale dottrina sta nel superare la distinzione fra tattiche lineari e asimmetriche facendo un uso simultaneo e coordinato di entrambe. Si tratta cioè di fondere insieme l’impiego di forze speciali, forze regolari, unità paramilitari, attacchi cibernetici alle infrastrutture critiche dell’avversario, accompagnati da sommovimenti popolari o insurrezionali debitamente orchestrati, e da massicce campagne di disinformazione a livello globale per distrarre e dividere l’opinione pubblica internazionale e indebolire le democrazie occidentali dall’interno.

Ancora una volta, esempi di guerra ibrida possono essere facilmente scovati fra le pieghe della storia (ad esempio, la guerra peninsulare sostenuta da spagnoli, portoghesi e britannici contro Napoleone, o la guerra sino-giapponese durante il Secondo conflitto mondiale); ed è curioso osservare che, anche in questo caso, i russi ritengano la loro “guerra non-lineare” modellata su esempi occidentali come le “Rivoluzioni colorate” dei primi anni 2000 in alcuni Paesi ex-sovietici (Georgia, Ucraina, Kirghizistan) o l’aggressione all’Iraq del 2003, supportata da casi piuttosto eclatanti di quelle che oggi definiremmo fake news (le presunte “prove” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, poi mai rinvenute).

È fuor di dubbio, però, che sia stata la Russia a dispiegare il maggior numero di tecniche ibride contemporaneamente, e che tale minaccia abbia riportato al centro dell’agenda Nato il cosiddetto fronte est. Non si trattava però di un mero ritorno al modello di deterrenza e difesa della Guerra fredda. Accanto all’esigenza di mantenere una forte componente regolare e di deterrenza atomica, la Nato ha dovuto inoltrarsi su terreni nuovi come il cyberspazio, che rendono la moderna versione della guerra ibrida più pervasiva che in passato, anche perché rendono più difficile l’attribuzione (e dunque la responsabilità) di un attacco.

Oltretutto, benché sia stata la più efficace, la Russia non è l’unico Paese che ha fatto ricorso a minacce ibride nei confronti di rivali geopolitici. L’Iran ha adattato tale dottrina alle proprie esigenze e possibilità, combinando un massiccio impiego di forze paramilitari finanziate e sostenute da Teheran (Hezbollah è solo il più famoso gruppo di una fitta rete di militanza sciita nell’arco mediorientale) con un’intensa attività cibernetica coordinata dal Corpo delle Guardie rivoluzionarie, e l’arruolamento di cyber proxies.

A modo suo, la Cina dispiega un tipo di azione ibrida incentrata su una forte componente lineare affiancata da un’inarrestabile azione cibernetica su scala globale e da strumenti di pressione economica. Benché non necessariamente rivolte alla Nato, tali minacce sono considerate di prim’ordine dal suo principale esponente, gli Stati Uniti. L’apparente crisi dell’egemonia statunitense, più rapida di quanto chiunque si potesse aspettare all’atto della caduta del Muro, ha insomma dato vita a un mondo multipolare con sfide in continua evoluzione. Né la guerra ibrida è un mero monopolio statale. Anzi, si innesca anch’essa su uno scenario di sicurezza ove attori privati o parastatali possono giocare un ruolo cruciale.

L’utilizzo massivo di Internet, del dark web e di armamenti sempre più sofisticati e a prezzi competitivi apre una serie maggiore di “canali” di vulnerabilità attraverso cui un individuo, un gruppo, o una corporazione, possono colpire. Un esempio è offerto dallo Stato islamico, o Daesh, il primo caso mondiale di un gruppo terroristico che si fa “stato”, costituendo cioè un nucleo territoriale preciso (un’area fra Siria e Iraq), con ramificazioni ed entità satelliti su scala globale, dall’Indocina al Sahel. Daesh rappresentava (e per certi versi rappresenta ancora, nonostante le sue ripetute sconfitte) un tipo particolare di minaccia ibrida, fatta di forze semi-regolari (ma che impiegano tattiche asimmetriche), di cellule terroristiche nei Paesi occidentali e non solo, e di forze insurrezionali o banditesche per destabilizzare intere regioni, sfruttando al massimo le potenzialità della rete per proselitismo, arruolamento di foreign fighters e coordinamento.

La sua espansione in Libia fra il 2015 e il 2016 funse da campanello d’allarme per i Paesi mediterranei della Nato, che cominciarono – Italia in testa – a richiedere una maggiore attenzione al fronte sud, sottolineando che le minacce ibride di origine mediorientale, fra cui alcuni annoveravano le migrazioni di massa (viste come business lucrativo per il crimine organizzato e i terroristi, e come possibile canale di accesso in Europa per questi ultimi) erano non meno serie di quelle da est. Questo evidenzia un ulteriore elemento di novità rispetto alla Guerra fredda: al contrario di allora, oggi non tutti gli Alleati attribuiscono la medesima gravità (e priorità) alle varie minacce alla sicurezza collettiva, il che è particolarmente debilitante in quanto la Nato opera “per consenso,” non “a maggioranza.” Di conseguenza, si è innescato un intenso dibattito in seno all’Alleanza circa la migliore strategia da adottare.

La Nato ha trovato un’apparente soluzione al suo dilemma strategico attraverso la formula “360° approach” (Bruxelles, luglio 2018). Si è impegnata ad adempiere a tre compiti fondamentali: difesa collettiva, gestione delle crisi e sicurezza cooperativa. Nei confronti della Russia, la Nato ha ribadito l’intenzione di attuare uno spiegamento avanzato di forze regolari di deterrenza negli Stati baltici, istituendo al contempo un centro per operazioni cyber e rafforzando la resilienza dei Paesi alleati in materia. L’Alleanza ha adottato un pacchetto di misure volte a rafforzare il proprio ruolo nella gestione delle crisi lungo il fianco sud, aumentando l’impegno nella lotta al terrorismo e la collaborazione con Stati-partner locali. Infine, la Nato ha stabilito una più equa ripartizione degli oneri fra Stati Membri, da attuarsi in parallelo con una profonda modernizzazione della struttura di comando militare e una velocizzazione del processo decisionale. Come più volte accaduto in anni recenti, l’Alleanza si è anche riproposta di rafforzare la cooperazione con l’Unione Europea.

Ampiamente corretto sulla carta, il “360° approach” lascia irrisolti alcuni nodi cruciali. Nei confronti della Russia, l’azione Nato è stata relativamente efficace sul fronte est, dove un mix di sostegno alle forze ucraine, rafforzamento degli alleati baltici e sanzioni economiche sancite dalla Ue hanno portato Putin a impantanarsi in Ucraina; ma non a sud, dove Mosca a trovato terreno fertile per espandere la sua sfera di influenza in Siria e in Libia attraverso un uso spregiudicato di alleanze locali, potere aereo e mercenari. In questi teatri, la Turchia sta svolgendo un ruolo ambiguo, in parte autonomo e in parte di concerto con Mosca, ma in nessun caso riconducibile a quel che ci si aspetterebbe da un importante Stato membro della Nato.

La crisi libica, oltretutto, con il flusso incessante di mercenari russi, sudanesi e siriani nel paese, e il coinvolgimento diretto o indiretto di Turchia, Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti sembra indicare un autentico ritorno in auge delle guerre per procura (un trend già evidente in Yemen). La Nato, che ha avuto un ruolo chiave nello spodestare Gheddafi nel 2011, al momento non ha una strategia per la stabilizzazione della Libia. Quanto alla cooperazione con la Ue, essa rimane difficile per l’incompatibilità fra Turchia (Membro Nato) e Cipro (Membro Ue), che ha ridotto la collaborazione fra le reciproche operazioni navali nel Mediterraneo (Sea Guardian e Sophia) a poco più che uno scambio di informazioni.

Anche a livello squisitamente operativo, la Nato necessita di un ulteriore salto di qualità. Se l’esperienza nei Balcani, in Afghanistan e Iraq ha evidenziato l’imprescindibilità di un approccio tripartito (politico, civile e militare) alle crisi regionali che necessitano di un processo di nation building, l’ingloriosa recente conclusione della guerra in Afghanistan e l’imbarazzante prestazione dell’esercito iracheno (almeno in parte addestrato da personale Nato) contro Daesh nel 2015 hanno rivelato che anche in presenza di tutte e tre le componenti il successo è tutt’altro che garantito e necessita un impegno prolungato e costoso che molti Alleati non possono o non vogliono affrontare (per la prima volta, tale novero include gli Stati Uniti di Trump). Insomma, l’Alleanza ha finora mostrato di sapersi adattare, e di poter abbracciare una gamma sempre più vasta di operazioni (una cinquantina, dalla fine della Guerra fredda); ma lo scenario globale pone davanti ad essa sfide ancor più ardue e scelte difficili.


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