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Dalla peste al Covid-19. Ecco tutte le pandemie della storia

Di Lorenzo Coppolino

È l’11 marzo 2020 quando l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara lo stato di pandemia per il Covid-19, acronimo per CoronaVirus Disease 2019. La parola pandemia deriva dal greco pan-demos, che significa “tutto il popolo” e indica una malattia epidemica che si diffonde a straordinaria velocità espandendosi in più aree geografiche del pianeta interessando, di fatto, tutta la popolazione mondiale.

Attualmente, la diffusione del virus è in fase espansiva in molti continenti (Europa e America su tutti) mentre si registra una contrazione nel luogo in cui la malattia è nata e si è sviluppata, cioè in Cina, con la città di Wuhan – punto focale dell’epidemia – che ha iniziato a respirare dopo mesi di isolamento, quarantena ed emergenza sanitaria. E proprio dalle misure adottate in Cina si è preso spunto per cercare di contenere il virus in Europa e America, con limitazioni pressoché totali alla circolazione delle persone, incentivi all’auto-isolamento e all’igiene personale di base. Questo accade perché da sempre si cerca di combattere un’epidemia servendosi dei comportamenti che in precedenza sono risultati efficaci per debellarla, in un percorso che attraversa i secoli e trascende il tempo e i meri confini geografici.

L’epidemia da Covid-19 è  quindi solo l’ultima di una lunga serie di epidemie che hanno piagato il mondo nel corso dei secoli e alcune di queste hanno avuto un ruolo determinante nella scomparsa di intere civiltà – gli Aztechi ad esempio, eliminati da malattie importate in Messico dai colonizzatori europei come il vaiolo e la salmonella – ma hanno anche rappresentato  elemento di cesura fra epoche storiche. Se convenzionalmente la fine dell’antichità e l’inizio del medioevo sono da datare al 476 d.C., con la deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augustolo, è altrettanto vero che fu la cosiddetta epidemia di peste di Giustiniano che dimezzò la popolazione dell’impero causando una crisi demografica, economica e militare che avrebbe impedito poi ogni tentativo di ripresa per circa un paio di secoli, indebolendo le ambizioni di riconquista in Occidente dell’impero bizantino e prestando il fianco all’espansione araba.

Sono solamente due esempi di quanto un’epidemia possa incidere sulla storia e, sicuramente, quella che stiamo vivendo in questi mesi non sarà da meno, visto che condizionerà senza ombra di dubbio l’andamento dei mercati, dall’economia reale a quella finanziaria, e, probabilmente, contribuirà a ridisegnare alcuni assetti geopolitici e geostrategici, come accadde in passato, sin dall’alba della civiltà.

Come primo esempio di epidemia, non si può non partire dalla febbre tifoide che colpì Atene durante la Guerra del Peloponneso del 430 a.C. . Bisogna menzionarla per due motivi: il primo, in quanto ha avuto un impatto decisivo sulla società dell’epoca, mettendo in crisi i valori sociali, culturali e religiosi della polis; il secondo perché la testimonianza resa dallo storico Tucidide nella sua opera “La guerra del Peloponneso”, ancora oggi stupisce per accuratezza, oggettivo distacco e rigore quasi scientifico, segnando una profonda rivoluzione nella storiografia, che sino a quel momento aveva avuto perlopiù un intento celebrativo talvolta tendente all’inverosimiglianza e alla ricostruzione quasi mitica.

Spostandoci più avanti nei secoli, la cosiddetta peste antonina ha colpito l’impero romano sotto Marco Aurelio e l’imperatore associato Lucio Vero tra il 165 e il 180 d.C., sterminando, secondo le diverse stime fatte dagli storici, tra i 5 e i 30 milioni di persone. Ad oggi, è ancora incerto di che tipo di malattia si trattasse, con gli studiosi che propendono o per il vaiolo o per il morbillo, o, addirittura, per due epidemie diverse. Ciò che è condiviso, è che sia stata importata dall’esercito romano dopo le campagne militari contro i Parti (161-166).  Anche la peste antonina ha avuto effetti devastanti, in particolare sulla capacità dell’esercito romano nel respingere le pressioni dei popoli germanici e galli al confine Nord dell’impero.

Della peste di Giustiniano (541-544, a ondate poi nei due secoli successivi) si è già accennato in precedenza, ma bisogna ricordare che, sebbene si sia parlato di peste anche nei due casi sopracitati, la vera e propria peste è entrata per la prima – e purtroppo, come vedremo, non ultima volta – nella storia proprio in questa occasione. La diffusione del batterio yersinia pestis è una delle minacce principali che l’uomo ha dovuto affrontare nel corso della storia, combattendo contro di esso alcune delle battaglie più cruente che ci siano mai state, con milioni e milioni di vittime. L’origine di questo batterio è probabilmente da ricondurre all’Asia centrale e ai roditori selvatici, che hanno sviluppato resistenza alla malattia e ne costituiscono il serbatoio. La veicolazione del batterio invece è avvenuta soprattutto grazie alle pulci, che infettando altre specie animali, hanno trovato nei ratti il veicolo di propagazione ideale per la peste, tanto da farla arrivare sino in Europa, grazie a cambiamenti climatici favorevoli alla resistenza e alla diffusione.

Da quel momento in poi, si segnalano tre epidemie di peste. La prima racchiude un periodo storico che va dal 541 al 717, e racchiude al suo interno la già citata peste di Giustiniano, la peste di Shirawayh (627-628), la peste di Amwas (638-639) e la peste di notabili (716-717). La seconda copre una linea temporale che va dal 1346 al 1720, in cui è opportuno approfondire soprattutto la cosiddetta peste nera. La peste nera è senz’altro la pandemia che è rimasta maggiormente nell’immaginario collettivo – basti pensare al “Decameron” di Boccaccio o alle raffigurazioni di artisti come Peter Bruegel – e che nel periodo di sua massima diffusione ha ucciso, secondo le stime maggiormente condivise, oltre venti milioni di persone nella sola Europa tra il 1347 e il 1353.

Arrivata probabilmente in Europa dalle rotte commerciali con l’Oriente, si è diffusa nel nostro continente a partire da Caffa, colonia genovese in Crimea, e si è espansa a macchia d’olio, prima nei porti e poi in tutta l’Europa continentale, riducendo la popolazione europea di un terzo. Sempre in questa seconda epidemia, non bisogna trascurare la peste del 1630 diffusasi nel nord Italia e raccontata da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”; la Grande peste di Londra che tra il 1665 e il 1666 ridusse di circa un quinto la popolazione della città e la peste di Marsiglia del 1720, che portò a un dimezzamento della popolazione cittadina. La terza e ultima epidemia di peste, invece, copre un lasso di tempo che va dal 1855 al 1918, e si è diffusa in tutto il mondo a partire dalla Cina.

Quest’ultima è particolarmente rilevante perché proprio in questi anni – precisamente nel 1894 – il medico francese Alexandre Yersin scoprì il bacillo della peste (contemporaneamente al giapponese Shibasaburo Kitasato) e riuscì a produrre un siero. Da quel momento in poi, con i dovuti tentativi che la scienza deve necessariamente fare, la peste ha iniziato ad essere un nemico meno mortale e, sebbene al giorno d’oggi non sia comunque estinta come il vaiolo, ha un potenziale di letalità decisamente inferiore rispetto agli stermini perpetrati nel corso dei secoli.

Pensare tuttavia che arginare la diffusione della peste abbia reso la lotta dell’uomo contro gli agenti patogeni meno ardua è un grave errore, dato che il XX secolo è stato ugualmente falcidiato da terribili epidemie che hanno causato milioni di morti. È il caso della cosiddetta influenza spagnola, una pandemia influenzale mortale che tra il 1918 e il 1920 ha contagiato cinquecento milioni di persone in tutto il mondo uccidendone cinquanta, e riducendo l’aspettativa di vita di circa dodici anni. Sui reali meccanismi della sua diffusione non c’è una versione condivisa, ma si pensa che sia riuscita a espandersi in tutto il mondo dagli Stati Uniti o dalla Cina – su questo gli studiosi divergono – grazie agli spostamenti di uomini e contingenti dovuti al primo conflitto mondiale.

Se, fortunatamente, da un certo momento in poi l’influenza spagnola ha diminuito fortemente il proprio coefficiente di letalità (probabilmente a causa di una mutazione del virus stesso), lo stesso non si può dire per uno dei mali che ancora affliggono la nostra società: la sindrome da HIV che dal 1981 non cessa di mietere vittime, che ad oggi sono più di trenta milioni. E ancora le varie forme di influenza (H3N2, H5N1, H1N1) e di coronavirus (SARS, MERS) che hanno effettuato uno spillover – termine che indica il passaggio di un agente patogeno dall’animale all’uomo che in inglese vuol dire letteralmente “tracimazione” – fino ad arrivare ai giorni nostri e alla pandemia di CoVid-19.

Quest’ultima è la prima epidemia ad aver raggiunto il livello di pandemia da quando l’Oms nel 2009 ha introdotto i nuovi criteri per la definizione di pandemia, e rispetto agli altri ceppi di coronavirus che negli ultimi anni hanno, purtroppo, colpito la popolazione, si caratterizza per una maggiore capacità di diffusione ma, anche, fortunatamente, per un più basso tasso di mortalità. Certamente l’epidemia di CoVid-19 presenta delle peculiarità che la rendono per molti aspetti un unicum, ma non tanto per ragioni scientifiche, quanto per ragioni socio-culturali. Di fatto è la prima pandemia che si sviluppa ai tempi dell’informatizzazione capillare e dei social network, con conseguente diffusione in tempo reale di notizie, opinioni, studi e, purtroppo, anche falsità e bugie difficili da estirpare; inoltre per la prima volta l’Europa dopo l’influenza spagnola si trova ad essere nuovamente – dopo la Cina – epicentro di una pandemia, con tutte le difficoltà di bilanciamento di poteri e di misure che un’organizzazione sovranazionale come l’Unione Europea deve affrontare.

Da ultimo l’emergenza sanitaria, pur invitando giocoforza a una maggiore responsabilità tanto i cittadini quanto gli stati, non può comunque far passare in secondo piano gli interessi strategici e geopolitici delle grandi potenze, quindi, nonostante la solidarietà, è altamente utopico che il mondo si affratelli globalmente per far fronte a questa problematica in quanto le divisioni permangono e permarranno, così come le accuse, gli scarichi di responsabilità e la poca trasparenza sulla diffusione dei dati. Ciò che è auspicabile, e fortunatamente pare che si stia andando in quella direzione, è che il buon senso prevalga, cercando di seguire, ancora una volta come per le grandi epidemie del passato, l’esempio di chi ci è passato prima di noi.

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