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Patologia del sapere

Scrive Morin: Non ci si rende ancora ben conto che la disgiunzione e il frazionamento delle conoscenze compromettono non solo la possibilità di una conoscenza della conoscenza ma anche le nostre possibilità di conoscenza di noi stessi e del mondo, provocando quella che Gusdorf giustamente chiama una “patologia del sapere” (1).

Tema dei temi, la patologia del sapere precede ed eccede ogni altra considerazione. Nel nostro percorso verso un progetto di civiltà, il nodo del conoscere ci pre-occupa, ovvero si colloca prima di altre occupazioni.

Ciò che disgiungiamo, frazioniamo e mutiliamo, il sapere, ci è indispensabile non solo per (com)prendere chi siamo e cos’è la realtà. Il sapere, disgiunto/frazionato/mutilato, non ci permette di entrare nelle dinamiche del mondo, nelle complessità dei processi storici. È nella patologia del sapere, infatti, che ricerchiamo un ordine inesistente e che non (ri)cerchiamo l’ordine nel disordine.

Come possiamo essere cittadini, dunque (ri)congiunti nella realtà, se le nostre chiavi interpretative sono immerse nella “prigione” degli specialismi ? Lo scontro tra il nostro approccio separante e la realtà tutta intera, inseparabile, è epocale. Ed è uno scontro irrisolvibile se non ci collochiamo, con serietà e radicalità, in una vera riforma del pensiero, dell’educazione e della formazione. Queste ultime, come già notato, da intendersi come educ-azione e form-azione, cioè continua tensione all’azione politica.

Così immaginiamo l’università come uni/pluri-versitas. Ancora pensiamo di dover “sfornare” specialisti quando, invece, siamo chiamati a far maturare professionalità in visioni globali.

Dirlo è più facile che farlo, ben lo sappiamo. Il problema, però, è sempre la realtà e con quella bisogna fare i conti: non aspetta. Non esistono, particolarmente nel mondo della interrelazione sistemica, sfide/problemi disciplinari. Attenzione, dunque, a cogliere il valore di dover superare la patologia del sapere: ne va del futuro stesso dei nostri giovani.

Per quanto ovvio va detto che gli specialismi permarranno e che ciascuno, nella vita, organizzerà la propria esperienza in un ambito particolare. Ma la questione è un’altra: si tratta, infatti, di essere consapevoli che ogni nostra attività è calata, immersa, in una macro-attività globale che non può essere considerata un “di più” ma che riguarda, e percorre, ogni nostro specifico.

Da qui viene l’importanza della transdisciplinarità. Porre le conoscenze in dialogo, sui piani dialettico e poi dialogale, è la prospettiva da percorrere. Si tratta, senz’altro attendere, di operare continue contaminazioni tra discipline per la fecondazione di ciascuna in ogni altra e in tutte.

La transdisciplinarità non nasce da reciproche cortesie accademiche ma dalla profonda convinzione che la reale conoscenza è tale che, per formare alla realtà, deve anzitutto formarsi nella realtà.  Non si può pensare di dare ai giovani una formazione transdisciplinare se i docenti non sono convinti di dover considerare il proprio ambito specialistico come una “sliding door” nella quale, nel preservare i fondamentali disciplinari, si lasci entrare il respiro della complessità.

Come dicevamo, si tratta di una sfida epocale ma necessaria. D’altronde, è la realtà che – al contempo – ci chiede di farla nostra e ce la impone.

NOTE

(1) Edgar Morin, Il metodo. La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 9

(Professore incaricato di Istituzioni negli Stati e tra gli Stati e di History of International Politics, Link Campus University)

 



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