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Per una nuova Mediobanca delle piccole e medie imprese. La proposta di Valori

La Mediobanca, quella storica di Mattioli e Cuccia, nasce nel 1946, fin da subito come Spa, e che si chiamava per esteso Mediobanca Banca di Credito Finanziario, operò fin dall’inizio avendo, come soci fondatori, la Banca Commerciale, di cui era presidente allora proprio Raffaele Mattioli, e il Credito Italiano.

Enrico Cuccia, insuperato lettore di bilanci, e fu nota infatti la sua battuta sulla Fininvest di Berlusconi: “Ma quanto vale davvero una antenna Tv?” fu Direttore Generale di Mediobanca dalla sua fondazione fino al 1982, quando già si intravedeva la crisi binaria del sistema della grande impresa, pubblica e privata, e delle banche che la sostenevano.

Quale era la logica che aveva spinto alla fondazione di questa particolare struttura finanziaria?
Semplice: garantire, nei tempi medi e talvolta lunghi e lunghissimi, le necessità economiche delle imprese produttrici, soprattutto in ambito manifatturiero, che erano uscite devastate dalla guerra mondiale.

Dopo la riforma bancaria del 1936, della quale proprio Mattioli e il suocero di Cuccia, Alberto Beneduce, avevano dato le linee generali, poi imitate in molte legislazioni finanziarie successive alla crisi del 1929, e anche negli Usa, ci furono molte banche che, potendolo fare, avevano scelto di operare nel mercato tradizionale della raccolta di risparmio dalla clientela, per poi operare nel mercato del credito a breve.

Mancava quindi una struttura finanziaria specializzata che lavorasse solo per le imprese, che le finanziasse a medio-lungo termine, che infine le portasse, quando possibile, a quotarsi in Borsa.
La legge allora, separava nettamente le banche di credito e di raccolta del risparmio da quelle che operavano per le imprese e le portavano in Borsa.

Era il modo più razionale di separare le imprese dalle banche, per evitare che la crisi delle aziende diventasse l’atto di morte del pubblico risparmio. Enrico Cuccia, che non amava di certo la classe politica italiana, salvo il suo amico e, peraltro, antico banchiere Ugo La Malfa, tenne nettamente fuori Mediobanca dalle moltissime pressioni che arrivavano da tutto il mondo politico. Ma Cuccia ebbe, soprattutto dal 1982 in poi, delle fortissime tensioni con l’Iri, allora presieduta da Romano Prodi, che impose alle tre Banche di interesse nazionale, Banca Commerciale, Banca di Roma, Credito Italiano, che erano tutte e tre nella sfera dell’Istituto di Ricostruzione Industriale, di non rinnovare il mandato a Enrico Cuccia.

Ma c’era un altro elemento che determinava la trasformazione, inevitabile, di Mediobanca.
La Legge Bancaria del 1993 abolì infatti l’obbligo di specializzazione delle banche, ovvero la separazione, quindi, tra banche di raccolta e istituti di credito finanziario alle imprese a medio-lungo termine, e si arrivò a una vera e propria crisi tra le Banche partecipanti all’azionariato di Mediobanca e il vecchio, ormai, istituto di credito a medio-lungo termine.

L’idea centrale della legge del 1936, peraltro, non era del tutto sbagliata, anche se, in ambito di globalizzazione finanziaria, non risultava più comprensibile. O si separano le banche dai loro clienti, o la probabilità di un crollo parallelo aumentano a dismisura. Il T.U. di Giuliano Amato, peraltro, ovvero la riforma del 1993, facendo cessare la divisione strutturale tra le banche, anticipò di ben sei anni la fine del Glass-Steagall Act Usa che, in sostanza, riprendeva proprio le coordinate di separatezza tra banche e imprese della Legge Bancaria fascista del 1936.

Oggi, per riprendere la via dello sviluppo e perfino della semplice stabilità produttiva, a parte le iniziative, pur necessarie, dei Governi Ue per far fronte agli effetti della pandemia da Covir-19, occorrono, nella sola Italia, 200 miliardi entro i prossimi 18 mesi. Ed è questa l’entità di una completa ricostruzione post-bellica. Per risolvere questi specifici problemi, gli Stati hanno sempre fatto ricorso a delle forme di indebitamento straordinario, come fu per i tradizionali War Bonds, e si tratta di strumenti finanziari al portatore che danno un reddito mediamente più basso di quelli standard, ma hanno una durata lunga, tra i 7 e i 15 anni.

Il mercato dei titoli è però, oggi, molto complesso e strutturato, ma si potrebbe pensare anche ad una emissione mensile di Italy Bonds, a 15-20 anni, ed è questo un mercato già molto ampio e oggi gradito ai risparmiatori, con una cedola costante del 1,5-2%, la stessa degli attuali Btp, esenti ovviamente da ogni imposta presente e futura, ma con un credito d’imposta, casomai, per i clienti corporate o retail, di importo pari o addirittura superiore alla cedola, un importo, per esempio, di credito d’imposta del 3-4%.

La crisi delle Pmi è stata però solo acuita dalla pandemia da coronavirus e dal corrispondente, e necessario, lockdown di molte aziende e attività artigianali. Un dato per tutti: le piccole e medie imprese italiane sono oltre il 90% del totale delle nostre aziende, e mi riferisco a quelle con meno di 20 dipendenti, ma ricevono solo il 13% dei prestiti bancari. Nel 2019 c’è stato il maggior calo dei prestiti alle pmi, a partire dal 2015.

Se si vedono i dati di Banca d’Italia elaborati all’inizio del 2020, si scopre poi che il credito alle pmi più rischiose, calcolato sui criteri Cerved, è caduto di ben l’8% per le micro-imprese, ma si sono abbassati il rating e la quantità di finanziamenti bancari disponibili anche per le pmi più “sicure”.
Intanto, i prestiti bancari sono aumentati, in tutta l’Eurozona, e quindi anche in Italia, del 3,7% in Europa continentale, ma solo del 3% in Italia, con il tasso di cinque punti percentuali di meno, nel nostro Paese, rispetto al trend che si verifica oggi nel resto della Ue.

Un credit crunch per le nostre imprese più piccole, che le rende molto deboli, spesso incapaci di una buona globalizzazione, e anche inevitabilmente lente nel rinnovare le loro tecnologie di punta, ma che sono prone infine al ciclo dei loro capitali, a breve e in prestito. Una delle ragioni di questa debolezza strutturale della finanza delle nostre pmi riguarda, da un lato, l’inaccessibilità delle piccole e medie imprese al mercato del debito, con l’emissione di obbligazioni o dei mini-bond, ma l’altra importante ragione della debolezza finanziaria delle nostre pmi è la vera e propria giungla normativa europea, che è mirata ad un solo e unico obiettivo: diminuire pesantemente il rischio di credito per le banche.

Tutte le normative Ue nel settore bancario tendono a non fare affatto credito alle pmi più deboli e piccole, e a trattare i consueti non performing loans delle imprese solo come una anticamera immediata del fallimento. Se ci fossimo comportati così durante il colossale boom economico degli anni ’60 del secolo scorso, avremmo ancora le macerie della Seconda Guerra Mondiale al centro delle nostre maggiori città.

Se una banca acquisisce il comportamento completamente risk-averse di una tradizionale assicurazione, allora tanto vale che cambi mestiere. Peraltro, le nuove normative UE che si intravedono all’orizzonte e che riguardano la regolarità dell’erogazione dei prestiti bancari alle imprese e alle famiglie, sono ancora più severe e rigorose di quelle internazionali, si prestano quindi i soldi solo a chi non ne ha, sostanzialmente, bisogno.

Per non parlare, qui, delle normative dette Basilea II, ovvero l’International Convergence of Capital Measurements and Capital Standards elaborato dal “Comitato di Basilea” interno alla Banca dei Regolamenti Internazionali, il torracchione, così lo avrebbe chiamato il romanziere Luciano Bianciardi se lo avesse conosciuto, che sovrasta il centro della città elvetica. Ironia della sorte, la Bri fu creata nel 1930 per gestire l’applicazione del Piano Young, quella geniale e modernissima operazione finanziaria che abbatteva del 20% il debito di guerra della Germania sconfitta, dividendolo in rate da pagare ogni 58 anni, con l’ultima che è stata saldata un anno prima della riunificazione tedesca, il 1988.

Diversamente da questa idea geniale di ripagamento del debito, che venne elaborata negli anni ’20 del secolo scorso, Basilea II, entrato in vigore nel 2007, ha un solo e ossessivo obiettivo: rendere stabile il sistema bancario e diminuire radicalmente il rischio di credito delle imprese verso il sistema stesso. La quota di diminuzione dei crediti alle imprese, e in questo caso anche alle grandi, è stata, in certi anni successivi al Basilea II, addirittura del 3,5% in media. Basilea III è poi entrato in attività, lo ricordiamo, dal gennaio 2013; e è arrivato a regime il gennaio 2019.

Il calo dei prestiti alle pmi è, secondo gli ultimi dati di Banca d’Italia, è tra il -1,9% e il 2%.
Partendo da dati già largamente insufficienti. Il peso dei finanziamenti bancari nei bilanci societari italiani, sia delle pmi che delle aziende maggiori, peraltro, è in media superiore al 60% del debito totale. In Germania, Regno Unito e Francia il carico del debito bancario sul totale del debito di impresa è intorno al 50%.

Se, quindi, le stesse imprese non rischiano in proprio, e tendono ad essere, oltre che risk averse anche tendenti alla rendita, anche le banche tendono a proteggersi più del solito e, addirittura, più di quanto non accada con Basilea III. Quindi, scarsa capitalizzazione delle aziende, ma anche formalismo ingenuo, eccessivo e burocratico delle banche, che si dimenticano spesso che il loro mestiere è quello, appunto, di vendere denaro, e associano, nella elaborazione della informativa, norme nazionali, europee, internazionali che, oltre al Basilea III comprendono anche l’IRFS 9, nato nel 2014 per migliorare e standardizzare l’informazione finanziaria.

Nelle istruttorie per i prestiti, alla fine, le nostre pmi pagano il denaro ben più caro dei loro concorrenti perché la procedura per l’analisi dei rischi è molto più formalizzata, giuridicizzata, burocratizzata e rigidissima, mentre le banche tedesche e francesi servono la loro clientela business con molta maggiore elasticità. Le garanzie sono, quasi sempre, quelle personali del richiedente, cosa peraltro non prevista nemmeno dalle varie versioni del Basilea, mentre i tassi di accesso al credito sono, in altri Paesi europei, del 2-3%, con l’Italia che, per una azienda con un rating basso, arriva anche a far pagare il 7-8% di interessi annui.

Oggi, lo ricordiamo, siamo al 92% delle imprese italiane che sono micro-imprese e PMI, con cinque milioni e mezzo di partite Iva, e il cui volume di affari medio, per tutte le aziende micro e PMI, non va oltre i due milioni di euro l’anno. In Francia, Germania e Gran Bretagna gli imprenditori sono la metà dei nostri, ma in Francia il 75% delle imprese, che sono medie e grandi, non PMI, si concentra intorno a Parigi, mentre in Germania la rete bancaria è ancora, malgrado la normativa UE non lo accetti, in mano ai Länder e alla Kfw, la loro “Cassa Depositi e Prestiti”, che sostiene tutte le banche in crisi, sempre in barba alle normative Ue.

Il rating bancario è in primo luogo pubblico, ovvero è quello delle società specializzate nel settore, controllate da noi dalla Consob, e le pmi non possono, spesso, permettersi di pagare cifre rilevanti alle società di rating e, inoltre, di aspettare molto tempo prima che la valutazione venga resa ufficiale. Il rating non-ufficiale che, invece, la banche italiane adottano spesso è, per così dire, “privato”: è soprattutto il software che la Banca d’Italia mette a disposizione delle banche per valutare i bilanci delle aziende, sempre rimanendo fermi a quel teorema illustrato da un grande e notissimo imprenditore italiano: “il primo bilancio è per tutti, e va alle banche, il secondo lo vedono solo i manager, e non esce dall’azienda, il terzo è riservatissimo e lo conoscono solo lad e il principale azionista, che non ne parlano mai”.

Il software di Bankitalia studia le imprese secondo un criterio geo-settoriale e, seguendo l’andamento storico, nel solo settore di appartenenza. Se il rating risulta negativo, come spesso accade in una fase di crisi e in settori “maturi”, dove operano ancora molte pmi, la banca o gli offre un interesse dell’8%, del tutto fuori-mercato, o non gli concede, come spesso accade, nessun prestito, mandando in fallimento l’impresa.

Quindi anche le pmi devono dotarsi di un “linguaggio” adatto alle procedure bancarie, di buoni strumenti di tecnica contabile, come il business plan e i budget di gestione, poi anche i prodotti di fintech, come le analisi aziendali e le valutazioni professionali di merito di credito. Così si potrebbe, almeno all’inizio, rompere il muro di incomunicabilità che separa il cliente bancario business dal modo di pensare, o di non pensare affatto, delle banche. Una alternativa possibile? Il mercato privato dei capitali. In Italia ci sono 1375 miliardi di euro di risparmi di privati passibili di un investimento produttivo.

Tra Francia e Gran Bretagna, l’investimento nelle start up è in media, anno dopo anno, di 2,5 miliardi di Euro. In Italia la stessa voce vale 160 milioni di euro. In alternativa, è stato creato il Fondo di Garanzia per le pmi, con il decreto Pcm detto “CuraItalia”, che prevede anche operazioni a lungo termine (oltre i 36 mesi). Ma basteranno i Fondi di Garanzia e i Consorzi Fidi per garantire un flusso di credito alle pmi? Non crediamo. I Confidi hanno, secondo gli ultimi dati, una rischiosità molto bassa, sono oggi 34 e sono sottoposti alla Vigilanza di Banca d’Italia.

Hanno rilasciato un volume di garanzie, per il 2019, di 7,3 miliardi di euro. Nemmeno questa dimensione è, quindi, sufficiente. Allora, noi proponiamo ufficialmente la costituzione di una banca di credito a medio lungo termine dedicata alle piccole e medie imprese. Vi si accede con gli stessi criteri di una normale banca di credito industriale, la quale può portare alla entrata in Borsa per le pmi più promettenti, o che può magari organizzare un mercato efficace per i minibond emessi da questa o quella piccola e media impresa.

Può essere partecipata, la nostra Mediobanca delle pmi, da banche di credito ordinario o, ancora meglio, da banche e società di credito industriale, ha inoltre un suo settore ricerche che elabora profili di analisi e di rischio per la propria clientela, può emettere titoli di debito e credito sul mercato; e può anche partecipare ad operazioni di fusione, acquisizione, espansione nei mercati esteri. Un modello Mediobanca, quindi, adatto specificamente alle pmi italiane.

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