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Usa2020, cosa c’è dietro la sconfitta di Bernie Sanders

Di Lucio Martino

Bernie Sanders sembrava un candidato inarrestabile. Il senatore del Vermont si era classificato secondo quattro anni fa e, da quel momento i suoi numerosi sostenitori non hanno mai davvero smobilitato. Durante quest’ultima campagna elettorale, Sanders ha attirato folle la cui dimensione sminuiva tutti i suoi rivali, ha raccolto più fondi di chiunque altro, ha mantenuto una forte presa sul voto dei più giovani e ha ampliato la sua base diventando il favorito dei Latinos. A febbraio, Sanders ha vinto il voto popolare in Iowa, New Hampshire e Nevada e come nelle previsioni ha registrato l’unica sua chiara sconfitta in South Carolina, uno stato dal quale era uscito perdente anche nel 2016. Dopo le prime tre tornate elettorali, la candidatura dell’ex vicepresidente Joe Biden sembrava compromessa mentre quella di Sanders sembrava aver spiccato il volo anche perché, con l’approssimarsi del Super Tuesday dei primi di marzo, l’ala moderata del Partito Democratico continuava a esser divisa tra quattro grandi candidati quali, oltre a Biden, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Michael Bloomberg. Questo mentre la sinistra aveva solo due grandi scelte e Sanders era indiscutibilmente quella più popolare. Nel 2020, un progressista potenzialmente in grado d’impattare sulla società americana almeno quanto Franklin Delano Roosevelt sembrava avere una seria possibilità di diventare il presidente degli Stati Uniti.

La principale ragione della vittoria di Biden nel Super Tuesday è da ricondurre alla decisione con la quale l’intero fronte moderato si è improvvisamente radunato dietro di lui. Il primo a muoversi in questa direzione è stato Buttigieg, che pure fino a quel momento era riuscito a conquistare una non indifferente quantità di delegati. Ancora più cruciali per Biden sono stati poi gli endorsement di Amy Klobuchar e Beto O’Rourke. Quest’ultimo ne ha favorito l’affermazione in Texas, lo stato più ricco di delegati dopo la California, e tra tutti lo stato più a portata di mano dell’ex vicepresidente, dato che i sondaggi lo davano sotto Sanders di soli tre punti. Da parte sua, Klobuchar ha portato Biden alla vittoria in un altro stato di critica importanza per il Super Tuesday, quel Minnesota dove Sanders poteva contare su circa un quarto dell’elettorato mentre Biden solo su un dieci per cento. Posto che alla prova del voto la candidatura di Bloomberg si è rivelata priva di una qualunque vera rilevanza, nel giro di poche ore l’ala moderata del Partito Democratico ha di fatto superato ogni frammentazione. Tuttavia, neppure questa ritrovata unità, per sé, sarebbe stata sufficiente per far cadere Sanders. Come si sarebbe improvvisamente scoperto, i progressisti erano molto più divisi di quanto fino a quel momento immaginabile.

Nonostante sia stato tra i primi a interrompere la campagna elettorale, Andrew Yang si è ben guardato dall’appoggiare Sanders. Tulsi Gabbard, che come Yang alla fine ha deciso di appoggiare Biden, è rimasta in corsa fin dopo il Super Tuesday. Gabbard e Yang di certo non hanno strappato molti voti a Sanders, ma un loro endorsement avrebbe influenzato i media molto positivamente. L’altra grande esponente di sinistra, Elizabeth Warren, è rimasta in corsa per quanto l’unico vero risultato alla sua portata fosse quello di sottrarre voti preziosi a Sanders nel Massachusetts. Il mancato appoggio di Warren è stato il fattore che più di ogni altro ha condotto al naufragio della candidatura Sanders. Se Warren avesse fatto per Sanders quello che Klobuchar e Buttigieg hanno fatto per Biden, Sanders oltre che in Massachusetts avrebbe vinto in molti degli altri stati del Super Tuesday e dove avrebbe perso lo avrebbe fatto con dei margini tanto ridotti da conquistare comunque un gran numero di delegati. Infine, la pandemia ha sottratto a Sanders la sua arma migliore: i grandi raduni di massa.

È chiaro che alcuni dei fattori che hanno condotto alla sconfitta di Sanders erano oltre il suo controllo. La stragrande maggioranza dei media gli è sempre stata pregiudizialmente critica, il Consiglio Nazionale del Partito Democratico lo ha sempre considerato alla stregua di un estraneo, una non trascurabile aliquota dei suoi sostenitori si è a più riprese distinta per un’elevata dose di controproducente aggressività, mentre il fronte progressista è tendenzialmente incapace di organizzarsi unitariamente. Ciononostante, altri fattori erano sotto il suo controllo e avrebbero potuto essere gestiti molto diversamente.

Il rifiuto di Warren di favorire Sanders sembra il prodotto più di un rapporto personale andato male che di una divergente visione politica. Oltre alla sua relazione con Warren, Sanders avrebbe dovuto gestire meglio i suoi rapporti con Gabbard e Yang. Entrambi lo apprezzavano molto all’inizio della stagione elettorale. Yang lo citava come fonte d’ispirazione e Gabbard lo aveva già appoggiato nel 2016. Alla fine, Sanders si è dimostrato in grado di guidare saldamente un movimento popolare ma, a differenza di Biden, si è rivelato incapace di coagulare intorno a sé il consenso dei suoi più vicini colleghi. A danneggiare Sanders, oppure quantomeno a non aiutarlo come invece sarebbe stato possibile, è stata poi la tempistica dei suoi endorsement. Alcuni sono arrivati troppo presto, altri troppo tardi. L’endorsement di giovani e influenti politici quali Alexandra Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Rashida Tlaib è arrivato sicuramente troppo presto per massimizzare l’impatto. D’altra parte, l’endorsement di Jesse Jackson è arrivato solo l’8 marzo, una settimana dopo quel voto in South Carolina dove ha decidere il successo di Biden è stato soprattutto l’elettorato afroamericano. Inoltre, Sanders avrebbe dovuto focalizzarsi molto più attentamente su quello che fin dall’inizio era il suo più grande rivale. A ben guardare, Bloomberg, Buttigieg, Warren e Kamala Harris si sono tutti conquistati un posto al sole, ma è stato sempre e solo Biden ha superare Sanders nei sondaggi nazionali. Nel sottovalutare Biden, Sanders non è stato il solo. Ignorando qualsiasi approccio strategico, l’intero insieme dei candidati democratici ha di volta in volta focalizzato la propria attenzione su chiunque di loro si stesse momentaneamente mettendo in luce. Paradossalmente, la convinzione che la candidatura di Biden fosse così debole che non valesse neppure la pena di attaccarla l’ha resa invulnerabile.

Concludendo, non si più non riconoscere come Sanders abbia condotto questa sua ennesima campagna elettorale sfidando ogni convenzione, mettendo a tacere quanti si ostinavano a non considerarlo come un serio contendente ed evitando di lanciarsi in quegli attacchi personali ormai tristemente frequenti nella dialettica politica statunitense. Tuttavia, anche nel caso in cui fosse riuscito ad assicurarsi una posizione di vertice nella prossima convenzione democratica, molto probabilmente si sarebbe dovuto confrontare con la realtà di un partito disposto a scegliere il suo diretto rivale anche a costo di sfidare la volontà popolare. A questo punto, i suoi tanti sostenitori dovranno voltare pagina e accettare il fatto che il loro uomo non finirà alla Casa Bianca neanche questa volta, e data la sua età, probabilmente non ci finirà mai.

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