La globalizzazione è un fatto, o meglio un evento storico. Il globalismo è invece un’ideologia, o se preferite la visione del mondo, che ha accompagnato questo factum, accelerandolo e giustificandolo. Esso è stato messo a punto da quella che Giulio Tremonti ha definito una “mente collettiva” fatta di supertecnici operanti su scala globale e soprattutto nelle istituzioni sovranazionali. Da costoro, una vera élite globale, esso si è poi diffuso, attraverso i mezzi della comunicazione, a un più vasto insieme di soggetti, un’ampia classe colta o in ascesa, di cui ha plasmato lo stile di vita e il modo di pensare.
Per come si è presentato, e per i suoi stessi contenuti, il globalismo può definirsi a buon ragione come un ideale che, con rigore e coerenza, radicalizza e porta in qualche modo a conclusione il progetto illuministico o, se si preferisce, di razionalizzazione del mondo, proprio dell’età moderna. Che poi la Ragione, di per sé corrosiva e affossatrice di ogni tradizione o diversità storica, tenda alla fine a coincidere con il nulla (nichilismo) e a dare capo al più assoluto relativismo o indifferentismo morale, è un discorso importante che va affrontato seriamente.
Qui per ora mi preme di considerare un fatto ben preciso: proprio in quanto ideologia di stampo illuministico, il globalismo fa più propria l’idea più tipica di quel movimento: la categoria di Progresso. Basti considerare il libro epocale che il politologo statunitense di origine giapponese Francis Fukuyama pubblicò nel 1992, ove si preconizzava “la fine della storia” e quindi della politica e dei conflitti (almeno di quelli di fondo), per la consapevolezza raggiunta che, dopo la fine del comunismo, non ci sono alternative al modello risultato vincente e che si sarebbe sempre più affermato: punto finale del progresso umano, esso avrebbe accompagnato l’umanità nei secoli futuri.
Quel modello infatti avrebbe sconfitto il dato costante della nostra condizione di uomini, cioè la precarietà e l’insicurezza: sociale, economica, personale di sopravvivenza. Se la politica nasce come necessità di soddisfare al bisogno di protezione, la politica sarebbe morta. Così non è stato e la Storia, oltre che la politica, hanno presto presentato il conto ai facili apologeti del nuovo tempo futuro. Tre date sono da ricordare in questa epifania della fine delle illusioni dell’età globale, in un crescendo: l’11 settembre 2001, il giorno dell’abbattimento per via aerea delle Twin Towers, a New York; il 15 settembre 2008, il giorno del fallimento di Lehman Brothers, sempre nella metropoli americana; il 9 gennaio 2020, la data del primo decesso ufficiale per coronavirus, nella megalopoli cinese di Wuhan.
Queste tre date hanno mostrato il lato oscuro della globalizzazione, quello che i globalisti, accecati dalla loro ideologia progressista e spinti dai loro concreti interessi materiali, avevano occultato nella loro narrazione, esorcizzando il negativo che è connaturato alle cose umane. Elemento che oggi rende ancora più brusco il risveglio impostoci dalla realtà. Se in altri tempi sapevamo che il negativo accompagnava le nostre vite, ora scoprirlo dopo avere immaginato il contrario, potenzia ancor più gli effetti psicologici sulla nostra personalità. E sollecita per via naturale quel cambio di paradigma culturale, economico, sociale, politico che i più accorti di noi e la “saggezza delle masse” avevano già preconizzato.